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Euro crisis

Reddito di cittadinanza, flex-security e disoccupazione (di Luigi Pecchioli)

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Del reddito di cittadinanza ne ho già parlato

Leggo però di una proposta che vorrebbe unire il sostegno a chi non ha lavoro all’introduzione di un salario minimo garantito di € 9/h: con ciò si eviterebbe il problema, da me segnalato, dell’appiattimento dei salari su un livello prossimo a quello del reddito di cittadinanza. La proposta sembrerebbe quindi ragionevole e condivisibile. Ma c’è un ma. Questo:

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Come è possibile costringere le imprese italiane ad introdurre un salario minimo garantito orario, quando la redditività delle imprese è andata a picco? In un periodo di profonda crisi di domanda, a causa della quale le aziende non investono perché non credono di avere un rendimento da nuovi investimenti, avendo già degli impianti produttivi e manodopera sottoutilizzati, e le banche non finanziano per paura di non veder restituito il prestito concesso, come si può costringere un’impresa ad aumentare il costo del lavoro, erodendo ancor più la scarsa redditività?

 

Astrattamente la proposta sarebbe corretta, ma essa si scontra con il solito problema comune a tutte le soluzioni adottate anche dal Governo e rientra nella scia delle proposte classiche neo-liberiste: è una soluzione c.d. supply side. Anche in questo caso infatti si bada solo al lato dell’offerta, la produzione ed i fattori che la compongono, senza considerare che qualsiasi intervento, in queste condizioni, risulta solo o inutile o addirittura dannoso, se non si interviene sulla domanda di beni e servizi. E l’unico modo per farlo è inizialmente con una politica classicamente keynesiana: la creazione di occasioni di lavoro per le aziende, ovvero con gli investimenti dello Stato per far effettuare lavori pubblici. Solo con essi le aziende avrebbero uno stimolo a rimettere in moto la propria attività e, passato il primo periodo di utilizzo dei fattori già esistenti, che comincerebbero comunque a creare reddito consumabile, attraverso gli utili  e l’impiego di professionalità e imprese collaterali (dagli ingegneri, ai geologi, a tutte quelle professioni collegate ai lavori edili, nonché alle aziende in subappalto), la necessità di assumere nuove maestranze, ampliando così la base degli occupati e rimettendo in moto il ciclo dei consumi, attraverso il moltiplicatore keynesiano della spesa, già visto.

 

Pensare di risolvere i problemi di occupazione semplicemente costringendo le impres e a dare un giusto salario, senza però dare loro una ragione per fare ciò, ovvero una prospettiva di maggior guadagno, non solo è velleitario, ma persino controproducente. La flex-security di tipo scandinavo può funzionare solo se si ha un economia che tira, con una forte domanda aggregata, e un’alta spesa statale; non a caso i Paesi scandinavi sono quelli con la spesa statale più elevata, come si vede:

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Secondo un’analisi recente di Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma, solo una ripresa significativa della domanda aggregata, quindi un PIL che crescesse del 2/2,5% all’anno per almeno cinque anni, potrebbe far riassorbire la disoccupazione, mentre in queste condizioni intervenire sul mercato del lavoro, anche rendendolo più flessibile, come ha fatto il Jobs Act, non porterebbe alcun beneficio apprezzabile. In mancanza di queste condizioni la disoccupazione rischia di incancrenirsi e diventare di lungo periodo, con un rischio di non riuscire più a risollevarla, a causa di un fattore automaticamente espulsivo del disoccupato di lungo termine dal mercato del lavoro. Questa era la situazione europea al 2013:

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Questo fattore è dato dalla combinazione di due situazioni: da una parte dall’obsolescenza o dalla perdita delle competenze del lavoratore a lungo inoccupato, che non risulta più utile alle imprese, dall’altro dalla concorrenza dei giovani inoccupati che risultano più appetibili alle aziende. A ciò vanno uniti fattori psicologici, come la perdita di determinazione del disoccupato, la riluttanza delle imprese ad assumere un lavoratore che è stato fermo per lungo tempo, poiché vengono spesso richieste esperienze recenti nella stessa tipologia di lavoro, ed altri. Il risultato è che, senza una costante formazione del disoccupato, finanziata dallo Stato ed eventualmente dalle associazioni di categoria, attraverso programmi di recupero ed aggiornamento delle competenze da egli maturate, il lavoratore rischia di non rientrare mai più nel mercato del lavoro, restando così a carico del sistema di welfare, appesantendolo e rendendolo nel tempo non sostenibile. Queste politiche di recupero si scontrano però con i limiti di deficit per la spesa statale e ancor più con il pareggio di bilancio sciaguratamente da noi introdotto in Costituzione e sono attualmente non applicabili.

 

Quindi delle due l’una: o si fa spesa per creare lavoro e si punta sulla crescita per cercare di riassorbire i disoccupati, potendo con l’aumento delle entrate pubbliche derivanti dal futuro maggior gettito finanziare successivamente programmi per la formazione di quelli di lungo periodo e se tutto va bene un reddito di sostegno, o si cerca subito di finanziare un sostegno che però non crea lavoro e che rischia di diventare insostenibile nel medio periodo, cristallizzando un tasso di disoccupazione elevato, che l’imposizione di un salario minimo porterebbe solo ad aggravare e creando quell’esercito di disoccupati che è la finalità dei neo-liberisti per consentire una costante tenuta di un livello minimo di retribuzione, flessibile ulteriormente verso il basso, se e quando sarà necessario, senza che i lavoratori possano ribellarsi.

 

Se non ci si rende conto che queste sono le uniche alternative si fa solo il gioco di chi dalla situazione attuale ha solo da guadagnare. E non sono i lavoratori.

 

Luigi Pecchioli


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