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R. Bootle: La Soluzione per i Guai dell’Italia è Abbastanza Semplice, Uscire dall’Euro

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Da Voci dall’estero, pezzo cui consiglio a tutti la lettura.

 

Dalle colonne del Telegraph Roger Bootle, il vincitore del Wolfson Prize, avverte che l’Italia corre velocemente verso il default  – e che le “riforme”, anche se venissero fatte, non servirebbe ad evitarlo. L’unica via sarebbe rilanciare velocemente la crescita uscendo dall’euro.
  
Ciò di cui l’Italia ha bisogno immediatamente è una crescita economica decente _ Foto di Bloomberg
 
di Roger Bootle – SALVO che qualcosa di importante non cominci presto a cambiare, l’Italia è in corsa verso un gran default.
 
Nessun paese incarna il malessere economico europeo meglio dell’Italia. Spesso si dice che l’Italia non può finire nei guai perché è così ricca. Lo è. Ricca di bellezze naturali e di tesori dell’antichità, di splendide città e di una bellissima campagna, di gente incantevole, di cibo e vini meravigliosi e di uno stile di vita affascinante. Ma come paese in realtà non funziona.

Alcuni aspetti del problema sono lì da secoli; altri sono relativamente nuovi. Prima della guerra, gran parte dell’Italia era povera. Nel corso degli anni ’50 e ’60, anche se la politica italiana era caotica e il governo disfunzionale, con l’industrializzazione l’economia è cresciuta molto velocemente e ha toccato dei massimi livelli di PIL. Nel 1979, l’Italia ha superato anche il PIL del Regno Unito, un evento di cui gli italiani si sono molto rallegrati, chiamandoloil Sorpasso”.

 
I problemi sottostanti restavano sopiti. Anche se c’era la tendenza ad un’alta inflazione, la ripresa era sempre a portata di mano con una lira più debole (per farsi un’idea più precisa sulla realtà delle svalutazioni dell’Italia consigliamo di leggere la risposta di Bagnai a Zingales, ndVdE). E l’economia continuava a crescere. Poi tutto ha cominciato ad andar male. Nel 1995 il Regno Unito ha di nuovo superato l’Italia  e il divario tra le due economie da allora è andato accentuandosi.
   
Per cogliere il problema nella sua giusta prospettiva, tutti i Paesi del G7, tranne l’Italia e il Giappone, hanno ormai superato il livello di PIL di cui godevano prima della Grande Recessione. Il Canada è del 9pc al di sopra del livello del 2008, mentre il PIL italiano è ancora sotto del 9pc. Ma quel che è peggio, l’economia si sta ancora contraendo.
 
Questo non è un fulmine a ciel sereno. Dal momento che è stato adottato l’euro nel 1999, il tasso medio annuo di crescita dell’economia italiana è stato solo dello 0.3pc – in altre parole, quasi nulla.
 
Intendiamoci, non tutto questo è dovuto all’euro. C’è un disperato bisogno di riforme e il sistema politico sembra incapace di adottare le misure necessarie. E l’Italia è stato uno dei primi paesi a soffrire della crescita dei mercati emergenti.
 
Si consideri che la Germania produce beni durevoli di largo consumo e macchinari a tecnologia avanzata, mentre l’Italia si è specializzata in beni di consumo a bassa o media tecnologia che la Cina e altri paesi riescono a produrre più a buon mercato (qui una lettura utile ad approfondire il discorso sul crollo della produttività italiana, ndVdE).
 
E l’euro non ha certo aiutato perché, fin dall’inizio, i costi italiani hanno continuato ad aumentare più velocemente di quanto abbiano fatto in Germania e in altri paesi del centro. Questa volta, però, non c’era la via d’uscita del tasso di cambio. Quindi, i costi e i prezzi italiani sono rimasti privi di un meccanismo di riequilibrio.
 
È vero, il tasso di inflazione è sceso bruscamente. Infatti, ora è leggermente negativo. Ciò non sorprende, dato che il tasso di disoccupazione è al 12.6pc. A differenza di alcuni degli altri paesi periferici dell’euro, tuttavia, l’Italia non ha fatto molto per ridurre il suo divario di competitività. Con tanta capacità produttiva inutilizzata, è possibile che i salari e gli altri costi inizieranno a scendere notevolmente, come hanno fatto in Spagna, Grecia e Irlanda. Ma se questo accadrà, anche se finirà per rendere i prodotti italiani più competitivi, tuttavia farà peggiorare l’altro grande problema dell’Italia – il debito.
 
Anche se, al 3pc, il deficit pubblico non è particolarmente alto, il vero problema finanziario sta nello stock di debito, accumulato con una serie di deficit succedutesi nel tempo. Sorprendentemente, durante il recente periodo di “austerità”, il rapporto debito/Pil è aumentato (quelle surprise! , nDVdE). Attualmente è pari a circa il 130pc del PIL. Se l’economia ristagna e i prezzi scendono, il PIL nominale crollerà. E questo porterebbe il rapporto debito/PIL a salire, anche se il bilancio fosse mantenuto in pareggio allo scopo di fermare la crescita del debito.
 
L’Italia è molto vicina alla situazione che gli economisti definiscono “trappola del debito”, in cui il rapporto debito/Pil aumenta in modo esponenziale. L’unica via di fuga da questa situazione è l’inflazione, o il default. L’Italia non può creare inflazione perché non ha una propria valuta. Quindi, a meno che qualcosa di grosso inizi a cambiare molto presto, l’Italia è in corsa per un grande default sovrano.
 
Spesso si sente dire che una crisi del debito pubblico in Italia non è possibile perché gli italiani hanno un alto tasso di risparmio personale e, di conseguenza, ci sono sempre i fondi per comprare il debito. Allo stesso modo, si sostiene spesso che, a differenza del Portogallo o della Grecia, la posizione con l’estero dell’Italia non è poi così male, con le passività verso gli stranieri superiori alle attività verso l’estero di qualcosa come il 30pc del PIL. Questo significa che il debito italiano è per lo più dovuto agli stessi italiani.
 
Ciò è in gran parte vero – ma sino a un certo punto. Certo, poiché l’Italia non è un grande debitore verso l’estero vi è un rischio limitato di una crisi di indebitamento internazionale del tipo che affligge periodicamente diversi mercati emergenti. Ma ci può sempre essere una crisi fiscale. Il fatto che gli italiani hanno molti risparmi non significa che mettano volentieri il loro denaro in titoli di Stato, in particolare quando l’insostenibilità delle finanze pubbliche implica che a un certo punto ci sarà un default.
 
Come abbiamo visto, il debito greco può essere “ristrutturato” senza scuotere il sistema finanziario. Questo perché la Grecia è piccola. Ma l’Italia decisamente non lo è. Il mercato dei titoli di Stato italiani è il terzo più grande al mondo, dopo Stati Uniti e Giappone. Qualcuno da qualche parte è seduto su enormi scorte di titoli di debito italiani – per lo più le banche italiane. Quindi una crisi del debito si trasformerebbe in una crisi bancaria.
 
Certo non verrebbe in mente che c’è un problema se si guardasse ai tassi di interesse di mercato. I mercati sono felici di prestare al governo italiano per 10 anni al 2.4pc, 1.3pc sopra l’equivalente tedesco. Intendiamoci, prima che una crisi esploda, è esattamente questo che fanno i mercati. La loro specialità è quella di passare dalla spensieratezza al panico in un batter d’occhio.
 
Come potrebbe l’Italia sfuggire a tutto questo? I problemi sono profondamente radicati e non miglioreranno in una notte. Il Paese ha bisogno di riforme fondamentali del suo sistema politico, della giustizia, del suo sistema fiscale e del mercato del lavoro. Anche se tutto venisse fatto, però, l’Italia sarebbe ancora impantanata nel debito pubblico.

  

 

Come il resto della zona euro, quel di cui l’Italia ha più immediatamente bisogno è una crescita economica decente. Forse una qualche ripresa a livello europeo potrebbe essere raggiunta con una combinazione di audacia da parte della BCE e di allentamento fiscale da parte dei tedeschi. Ma non ci conterei.
 
L’opzione radicale per l’Italia è quella di uscire dall’euro e permettere a una valuta debole di generare un boom di esportazioni, una maggiore inflazione, un maggior gettito fiscale e un onere del debito più leggero. Mi chiedo quanti altri anni sprecati l’Italia dovrà subire prima che venga finalmente in mente ai suoi leader che questa è l’unica strada percorribile.
Roger Bootle è amministratore delegato di Capital Economics e vincitore del Wolfson economics prize nel 2012

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