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PROPRIETARI DELL’INFORMAZIONE E PROPAGANDA ANTIGOVERNO di Luca Pinasco.

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Come ha correttamente fatto notare Paolo Mieli: “Ѐ la prima volta nella storia che un governo non è sostenuto neanche da un giornale o media”. Basta leggere un giornale o accendere la TV per rendersene conto. Ogni talk show televisivo è organizzato in modo da mettere un componente della maggioranza di governocontro tutti gli altri componenti del salotto, con il conduttore/conduttrice che spinge le tesi contrarie al povero malcapitato e presenta esclusivamente servizi avversi a qualsivoglia affermazione abbia fatto un esponente gialloverde. L’omogeneità del discorso di ogni canale televisivo e di ogni quotidiano mainstream propone un livello di propaganda che ha ben poco da invidiare a quello dei regimi autoritari. Propaganda che oggi mira a minare le fondamenta del governo, ovverodissolvere l’alleanza tra Lega e M5S mettendoli l’uno contro l’altro. Il governo italiano, proprio come quello di Putin o quello di Trump è diventato il “nemico” nel racconto della stampa nazionale ed internazionale. Potremmo dire allo stesso modo in cui la grande informazione ha esaltato in passato eventi innegabilmente negativi per l’economia e la società italiana come la guerra a Gheddafi, le sanzioni alla Russia, le privatizzazioni e liberalizzazioni, i tagli alla spesa, il processo di mani pulite, assurde politiche europee, lo stesso euro e potremmo continuare a lungo. Com’è possibile che ciò accada? Per capirlo analizziamo il funzionamento degli assetti proprietari nel settore dell’informazione.

Non c’è nulla di oscuro, le informazioni sui proprietari dei maggiori quotidiani sono di pubblico accesso. Craxi diceva: “guarda come si muove il corriere e vedrai dove si va a parare”, infatti proprio il Corriere della Sera, primo quotidiano italiano, ha avuto come maggiore azionista, per decenni e fino all’inizio dello scorso anno, la Fiat (holding Exor), seguita da Mediobanca, Unipol, Intesa Sanpaolo. Dallo scorso anno la Fiat è uscita dal capitale ed è subentrato come primo azionista con quote di controllo la Cairo Communication. Il secondo maggior quotidiano, La Repubblica, da sempre di proprietà esclusiva del gruppo Espresso (Holding Cir) di Carlo De Benedetti, dallo scorso anno è passata al gruppo Gedi, nato dalla fusione tra il gruppo Espresso e Italiana Editrice, società quest’ultima di proprietà del gruppo Fiat, la quale a sua volta possiede il quotidiano La Stampa (il quarto quotidiano italiano) e Il Secolo XIX. Il gruppo Gedi che unisce la forza editoriale di Carlo De Benedetti (proprietario del 43,401% delle azioni) e quella della Fiat di John Elkan(proprietario del 15,027%) è oggi tra i maggiori a livello europeo. Il terzo quotidiano italiano, Il Sole 24 Ore, è di proprietà di Confindustria. Il Messaggero è di proprietà del finanziere Francesco Gaetano Caltagirone, e così via, la medesima situazione è riscontrabile in tutto il resto della stampa mainstream. E le televisioni? Stessa cosa, Mediaset e La7 sono possedute rispettivamente da Fininvest (Berlusconi) e Cairo Communication(Cairo), Sky Italia invece è del gruppo Murdoch. La Rai invece merita delle considerazioni a se, in quanto è di proprietà del Ministero dell’Economia e delle Finanze, il quale nomina due consiglieri d’amministrazione ed indica il presidente del consiglio d’amministrazione e il direttore generale (poi votato dal CDA), mentre sette consiglieri d’amministrazione sono nominati dalla commissione parlamentare di vigilanza. Come è immediato notare la Rai è influenzata in maniera determinante dal governo in carica che a sua volta necessita del favore dell’informazione per diventare tale, ed è guidata attraverso un sistema che permette esclusivamente al partito di governo di deciderne la linea editoriale. Almeno così è stato fino alle elezioni del 4 marzo dove per la prima volta nella storia italiana hanno vinto, grazie alla forza informativa di internet e delle reti sociali online, forze avversate dalla stampa mainstream. Ancora oggi però la struttura di governance della Rai è plasmata sulla volontà del precedente governo. Il sistema di gestione attuale del servizio pubblico d’informazione garantisce una pluralità decisamente inferiore a quella che garantiva la “lottizzazione” di Rai1, Rai2 e Rai3 tra Democrazia Cristiana, Partito Socialista e Partito Comunista. Oltretutto la “par condicio” per quanto garantisca l’equa presenza dei rappresentanti dei diversi partiti in televisione non garantisce la stessa equità nell’informazione in quanto chi dirige e costruisce i telegiornali, i salotti televisivi, i talk show politici, viene spesso selezionato in base alla sua linea politica, e nel caso in cui questa diventi scomoda, la pena è l’estromissione (i più recenti sono Giletti e Paragone). Ma il settore dell’informazione si compone anche di quelle società, fondamentali nel sistema di proprietà dell’informazione, che gestiscono i cavi, le antenne, i satelliti, la fibra e tutte le infrastrutture necessarie alla trasmissione. In Italia abbiamo Telecom, anzi a dir il vero non l’abbiamo noi, ma è stata letteralmente “conquistata” attraverso una scalata azionaria concessa dal permissivismo dei nostri governi, dal finanziere francese Vincent Bolloré. Ma l’informazione italiana troppo spesso, nella selezione delle notizie, si limita a riportare quelle proposte dal mainstream internazionale in un processo piramidale. La testa della piramide è costituita dalle maggiori corporation multinazionali di mass media, dai gruppi editoriali globali più influenti, e dai giganti della telecomunicazione.

“Verso le quattro del pomeriggio l’<<Associated Press>> diffonde le notizie all’interno di una rubrica dal titolo <<Uno sguardo agli editoriali>>, e usa come fonte principale il New York Times. Se, per esempio, sono il direttore di un qualsiasi quotidiano, guardo quella rubrica e dico: <<bene!, queste sono le notizie per domani sulla prima pagina. Me ne servirò per costruire i miei articoli>>. Anche i telegiornali delle reti televisive prendono e selezionano le notizie dagli articoli del New York Times, del Washington Post del Wall Street Journal e di pochi altri. In sostanza, ci sono alcune grandi industrie dei media che stabiliscono i confini e i contenuti dell’attività giornalistica di tutti gli altri. Si tratta di grandi compagnie, fra le più redditizie: esse vendono l’audience d’elite agli altri media” (Chomsky, Il potere dei media).

Vediamo quali sono e chi sono i proprietari. Nell’editoria i maggiori quotidiani da cui a cascata le informazioni sui grandi temi arrivano alla nostra stampa sono: The New York Times che vede come suo maggiore azionista Carlos Slim (l’uomo più ricco al mondo) e la famiglia Sulzberger seguiti da alcuni dei maggiori gruppi finanziari americani, Wall Street Journal, The Times, New York Post, tutti di proprietà del gruppo Murdoch (News Corp) il quale controlla altre decine delle maggiori testate. A seguire abbiamo il Financial Times, quotidiano simbolo della City di Londra, di proprietà del gruppo britannico Pearson fino al 2015, poi ceduto al gruppo giapponese Nikkei, e ultima della nostra lista ma non meno importante abbiamo la rivista The Economistfondata nel 1843 allo scopo di sostenere il liberismo. Essa oggi vede come suo azionista di maggioranza la famiglia Agnelli attraverso la holding Exor di proprietà di John Elkan. Nel settore dei mass media vi sono Comcast, Walt Disney Company, Time Warner, Liberty Media, Directv, CBS Corporation, 21 Century Fox e News Corp del gruppo Murdoch, per le telecomunicazioni, vi sono AT&T, Verizon, la tedesca Alcatel Lucent, la francese Thales, la spagnola Telefonica e per quanto riguarda la proprietà dei satelliti, i gruppi che ne gestiscono un maggior numero sono IntelSat, dapprima di proprietà di 120 nazioni, poi dopo la privatizzazione del 2001 fu acquistata da Goldman Sachs, seguita da SES SA che vede nel governo lussemburghese il suo azionista di maggioranza e le minori Eutelsat della spagnola Abertis e della francese CDC infrastructure. La cosa più curiosa è che risalendo con una semplice ricerca, su un qualsiasi sito di finanza o sui siti delle stesse società, ai reali proprietari delle azioni di tali gruppi si scopre che nel 90% dei casi coincidono, e possono essere identificati nei più grandi fondi speculativi d’investimento e gestione di capitale finanziario globali, i maggiori nel panorama finanziario internazionale, tra i quali spiccano Black Rock (6300 miliardi di dollari), State Street Corporation (2800 miliardi di dollari), Vanguard (5.100 miliardi di dollari), Capital World Investor (1700 miliardi di dollari), FMR (2.500 miliardi di dollari) seguiti da JP Morgan AM e PIMCO. Ciascuno di questi agglomerati di capitale gestisce una quantità di denaro superiore al prodotto interno lordo dei più grandi Stati occidentali, ma a differenza di questi ultimi, ne dispone realmente e lo utilizza per inserirsi con rilevanti partecipazioni nei settori strategici delle economie nazionali, riuscendo, nonostante abbiano lo scopo istituzionale di gestire il risparmio, ad influenzare tanto il mercato quanto i governi. In tal modo i fondi d’investimento sono diventati come evidenziato lucidamente da Luciano Gallino “proprietari universali delle imprese quotate (Gallino, Il colpo di stato di banche e governi). Ad esempio soltanto in Italia, secondo i dati Consob, Blackrock possiede importanti partecipazioni dirette (superiori al 5%) in Intesa San Paolo, Unicredit, Rai Way, Telecom Italia, Atlantia, Fiat, Assicurazioni Generali, Eni, Enel, Terna, Autostrade, Saipem, Azimut Holding, Banca Popolare di Milano, Banco Popolare, con una ramificazione estesissima di partecipazioni indirette. Fondamentale elemento da tenere a mente nella nostra analisi e che i suddetti colossi finanziari hanno visto enormi incrementi dei loro patrimoni durante l’ultima crisi finanziaria, in alcuni casi, ad esempio in quello di Blackrock, più che raddoppiati. Il sodalizio tra il mondo finanziario e il mondo dell’informazione (come sopra descritto posseduto e controllato dal primo) esisteva anche negli anni ‘90, aveva ragione Craxi quando diceva “I giornali sono la testa di un partito invisibile che non si presenta alle elezioni, che sta fuori dal parlamento e che ha come obiettivo quello di farmi fuori” (Guido Gerosa, Craxi il potere e la stampa). La differenza è che negli ultimi due decenni si è spostato da un livello nazionale ad un livello internazionale.

“A metà degli anni novanta, la prospettiva è che una manciata di imprese globali prenda il posto di molti operatori nazionali prevalentemente di proprietà statale, e domini il settore (dei media) su scala mondiale. Ovunque, volenti o nolenti, i governi vengono costretti a trattare con queste imprese, che agiscono a livello transnazionale, sui termini con cui i sistemi nazionali vengono incorporati nella rete globale e sui modi attraverso cui essi si sviluppano. In questi negoziati e grazie al loro accesso al credito e alla padronanza tecnologica, il potere contrattuale delle grandi aziende telefoniche, spesso agenti in alleanze strategiche o consorziare, è assai maggiore di quello dei governi della maggior parte dei paesi (Susan Strange, Chi governa l’economia mondiale?) .

Va da se che un settore incisivo per la formazione delle scelte e delle opinioni dei cittadini come l’informazione, se in mano a gruppi privati, diventi la più potente delle armi per portare avanti i propri interessi particolari. Ma non c’è nulla di cui stupirsi, è cosi che funziona la democrazia ai tempi del liberismo: il pluralismo dell’informazione, il pluralismo dei partiti, il pluralismo delle scelte, viene monopolizzato da grossi gruppi privati. Alla luce di questa analisi viene da porsi una domanda: è possibile conciliare l’interesse privato con quello della collettività, in un settore strategico come l’informazione, a maggior ragione se il privato è un grosso gruppo finanziario quotato in borsa portatore di interessi certamente differenti da quelli della collettività?

Luca Pinasco


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