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Crisi

PROFEZIA SULL’EUROPA

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Nei momenti di crisi si sente l’urgenza di capire l’origine del malessere e d’indovinare lo sviluppo degli avvenimenti. Purtroppo, quando tale crisi non riguarda la vita di una persona o di un’industria, ma di un intero continente, l’impresa diviene praticamente impossibile: i fattori sono innumerevoli, inestricabilmente intrecciati e in parte imprevedibili. L’unica soluzione è trattare il problema come un gioco. Non saremo seri, come profeti, ma del resto i profeti seri non esistono.

Innanzi tutto si dovrebbe sapere: la crisi è congiunturale o strutturale? sarà breve o sarà lunga? E che significano “breve” e “lungo” quando parliamo di fasi storiche, di cicli economici, di grandi fenomeni sociali? L’attuale crisi si fa generalmente risalire al 2008, sono dunque già passati sei anni. Si direbbe un tempo molto lungo. Ma forse, visto da Bruxelles, è breve.

I principali governi della zona euro sembrano in una posizione d’attesa, come se la crisi dovesse risolversi da sé. Quando ipotizzano provvedimenti (austerity, investimenti, quantitative easing) lo fanno all’interno dell’attuale sistema, dimostrando così di pensare che esso sia immodificabile. Per loro, la crisi è evidentemente congiunturale, e infatti non si sente parlare che di imminente rilancio. Ma potrebbe trattarsi di un errore. Torniamo al 1950 e immaginiamo un’impresa che fabbricava ottimi cappelli “Borsalino”. Dal momento che tutti gli uomini avevano una testa e portavano un cappello, nessuna crisi era prevedibile. E tuttavia l’inverosimile si verificò: la moda cambiò radicalmente e si passò da “tutti gli uomini col cappello” a “tutti gli uomini senza cappello”. Nei cinquant’anni seguiti alla Seconda Guerra Mondiale, il mondo economico europeo ha creduto senza tentennamenti ad una marmorea stabilità. I dogmi erano intangibili. Il primo è stato quello di una inarrestabile crescita: la ricchezza non può che aumentare, compensando, con l’incremento del gettito fiscale, le spese statali azzardate, il debito pubblico accumulato e gli errori di gestione. La realtà ha dimostrato che non è così, ma la convinzione è tanto forte che, mentre abbiamo sotto gli occhi un periodo in cui non si cresce e l’Italia va addirittura indietro, si parla di “crescita zero”. E perfino, senza ridere, di “crescita negativa”: come se un albero potesse crescere negativamente, rientrando a poco a poco nel terreno.

Un altro principio che si ritiene intoccabile è quello per cui lo Stato deve guidare l’economia. Tanto che quando essa va male non ci si chiede se per caso esso non l’abbia danneggiata, ma al contrario si invocano maggiori e migliori interventi governativi. Quali che siano i risultati ottenuti in passato, tutti sono certi che lo Stato rappresenta la soluzione del problema, non ciò che l’ha provocato. E potrebbe essere un errore esiziale.

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, in Europa si è avuto il più lungo periodo di pace che si ricordi. Nel 2008 erano già sessantatré anni. E mentre il tempo di guerra sembra un’eternità, il tempo di pace scorre via a tale velocità che si rimane stupiti quando, rievocando un avvenimento, si scopre che sono passati dieci o vent’anni. Ciò ha creato in tutti l’illusione di un mondo stabile e che l’Europa del 1995, ad esempio, fosse la stessa di mezzo secolo prima. Invece in tutto questo tempo il mondo è talmente cambiato che forse il modello produttivo europeo non è più adeguato. Prima il predominio tecnologico europeo e nordamericano è stato indubbio e incontestabile, poi la concorrenza degli stati asiatici è stata tale da metterci nell’angolo. Prima la natalità europea era notevole, e c’erano più bambini che pensionati, poi il peso dei vecchi – per la sussistenza e per l’assistenza medica – è divenuto schiacciante. Prima lo Stato ha largheggiato, in tutte le direzioni, pensando che il futuro avrebbe pagato i debiti del passato, ora siamo al momento in cui quel futuro è arrivato e ci accorgiamo di non avere di che pagare.

È come se i popoli non volessero vedere i cambiamenti. Dei nobili rientrati in Francia dopo la Restaurazione Talleyrand diceva: “ils n’ont rien appris ni rien oublié”, non hanno imparato niente, non hanno dimenticato niente. Quei gentiluomini credevano che la Révolution fosse stata un intervallo della storia, qualcosa che avrebbero potuto mettere tra parentesi, e analogamente noi europei siamo convinti che non possiamo avere torto. Il nostro è il mondo giusto. Se il resto del pianeta è diverso, è quel resto del pianeta che deve cambiare. E infatti i dirigenti dell’Unione Europea stanno tutti aggrappati alla leva del freno.

Certo, il cambiamento non è né chiaro né facile. Come risolvere il problema dell’enorme nuvola nera delle banconote congelate nel debito pubblico, che potrebbe risolversi in una pioggia di fuoco? Come convincere tanti milioni di cittadini che, per sopravvivere nel mondo com’è, devono rassegnarsi ad un tenore di vita meno alto? Come spiegare ai nobili che non è scritto da nessuna parte che debbano lavorare meno degli altri ed avere più vantaggi degli altri?

Ecco perché questa crisi può apparire tutt’altro che congiunturale. Mentre noi fabbricavamo cappelli, il mondo cominciava ad andare a capo scoperto. I segnali sono innumerevoli, ma noi continuiamo a sperare che tutto si aggiusti e si rimetta l’orologio indietro.

Alla fine della famosa commedia, “La Cantante Calva”, di Ionesco, un personaggio chiede notizie di questa famosa “cantatrice“, dal momento che nell’opera non se ne parla, e qualcuno gli risponde: “Si pettina sempre allo stesso modo”. Analogamente qualcuno qui potrebbe chiedere: “E la profezia?” La risposta ironica e stralunata, alla Ionesco, è semplice: “L’Europa ci sarà ancora”.

Gianni Pardo, [email protected]

26 dicembre 2014

 


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