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PICCOLE DONNE (NON) CRESCONO

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A Roma è successo un fatto strano: hanno rimosso il manifesto di un’associazione, la ProVita, contraria all’aborto. Oddio, proprio strano no. Viviamo pur sempre nel tempo della censura ‘bianca’ dove chi non la pensa come  il coro la canta rischia di vedersi chiudere il profilo facebook o il canale su youtube. Qui, però, è peggio: hanno ordinato di staccare il manifesto dal muro non i titolari di un colosso privato della web society, ma i rappresentanti pubblici, quindi eletti, dei comuni cittadini. Ergo, la censura è doppiamente grave perché bisogna risalire al Minculpop (o ai pruriti puritani degli anni Cinquanta contro la stampa ‘sconcia’) per trovare altri episodi consimili. Ma perché era così pericoloso il manifesto suddetto? A quanto pare, perché richiamava l’attenzione sull’aborto in maniera brutale. Non citava dati, non sciorinava statistiche, non vantava conquiste di civiltà. Mostrava, semplicemente, il corpicino di un feto; uno dei milioni di feti  soppressi ogni anno grazie all’aborto. Perciò, abbiamo un paio di grossi problemi: uno riguarda la libertà di espressione a cui accennavamo in abbrivio e se ne occuperà la coscienza dei senatori del partito ‘democratico’ che hanno chiesto la rimozione del poster oppure la coscienza degli attivisti ‘democratici’ del Movimento capitolino che l’hanno portata a termine. L’altro tema concerne la verità. Perché era così conturbante il cartellone di cui trattasi, al punto da doverlo scollare? I promotori della lodevole, democraticissima iniziativa l’hanno rivendicata affermando che “difendere la vita con messaggi così crudi e violenti non appartiene alla storia delle donne, né della città”. Davvero singolare come motivazione. È violento il messaggio di chi rammenta le fattezze di un bambino giustiziato nel grembo, non il gesto o la tecnica che quel bambino giustizia. Poi si cita la storia “delle donne e di una città”. E ciò  di fronte a un ‘affresco’ con l’unico torto di ricordare l’altra ‘storia’ bruscamente interrotta (diciamo così) di piccole donne (e piccoli uomini)  già formate a sufficienza per meritare l’epiteto di ‘umane’. Ecco il vero punto. L’aborto è un tema ‘scottante’ – e lungi da noi volerlo risolvere in un senso o nell’altro qui, adesso, su due piedi, nell’asfittico spazio di un post –, ma dell’aborto è lecito evocare sempre e solo il lato della medaglia concernente il ‘diritto civile’ di chi lo esige o il ‘dovere sociale’ di chi lo somministra. Mai il lato oscuro di chi lo subisce. E chi lo subisce è un feto (cioè una donna, o un uomo, in potenza) di fatto ucciso. Si può seriamente sostenere che la foto rientri nel novero delle “esposizioni pubblicitarie dal contenuto lesivo del rispetto di diritti e libertà individuali” proibite dal Regolamento in materia di Pubbliche affissioni di Roma Capitale? È davvero di cattivo gusto illustrare il nascituro (morituro) in un murales? Forse, ma non meno di quanto lo sia far finta di niente. Dice: ci sono migliaia di buone ragioni che militano a favore dell’aborto. Può darsi, almeno quante ce ne sono per promuovere l’eutanasia. Ma poi resta sempre sul tappeto, o meglio sotto, quel fastidiosissimo effetto secondario che risponde, tecnicamente parlando, al nome di ‘soppressione di un essere umano’. Guai a ricordarlo, però. Con buona pace della libertà. E anche della verità.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com


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