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Petrolio, prezzi in calo in attesa degli effetti Iran
Sul finire della scorsa settimana i prezzi del greggio sono scesi in una sessione evidentemente altalenante, ritracciando dopo aver ottenuto i primi guadagni del giorno, poiché sembrava probabile che gli alleati degli Stati Uniti avrebbero potuto spingere Trump a mantenere un accordo con l’Iran, con Teheran che avrebbe dunque potuto conservare le proprie esportazioni di greggio sui mercati globali.
Una parvenza di rilassamento che, però, non si è poi concretamente manifestata, con ciò che ne è conseguito sul fronte dell’aggiornamento delle previsioni degli analisti. Per intenderci, ora Bank of America ritiene possibile che il Brent possa superare quota 100 dollari entro la fine del prossimo anno, per un livello da diversi anni mai sfiorato. Ma sarà così?
Le “streghe” rialziste si affacciano minacciose all’orizzonte
Chi investe sul petrolio in maniera speculativa, attraverso impieghi in opzioni binarie o in altri contratti derivati, guarda con attenzione l’evoluzione del barile. Per il momento i prezzi del greggio rimangono appena al di sotto dei massimi pluriennali, con il Brent e il WTI che però strizzano l’occhio a guadagni settimanali in grado di infrangere nuovi record recenti.
Le minacce rialziste sono d’altronde sempre più minacciose all’orizzonte. Si pensi al già rammentato Iran, o ancora al Venezuela, o altresì alla difficoltà che alcuni membri OPEC possano avere nel cercare di calmierare i livelli di produzione (insieme alla Russia), dopo la scadenza dell’attuale intesa.
Ricordiamo che gli Stati Uniti hanno previsto di reintrodurre sanzioni contro l’Iran, che pompa sul mercato internazionale circa il 4% di tutto il petrolio mondiale, dopo che il presidente Donald Trump qualche giorno fa ha di fatto stracciato un accordo siglato nel 2015, e che limitava le ambizioni nucleari di Teheran. Molti analisti prevedono che i prezzi del petrolio aumenteranno rapidamente, nei prossimi mesi, a causa della riduzione delle esportazioni dell’Iran, che farà mancare il proprio supporto al greggio globale, contribuendo a spingere al rialzo i prezzi dei principali indicatori. Ma sarà così?
L’Europa potrebbe dare una mano al freno dei prezzi
In realtà, molto rimane ancora da capire. Per esempio, il primo ministro britannico Theresa May in chiusura di scorsa settimana ha ribadito il suo sostegno all’accordo nucleare iraniano e ha concordato con Trump che sono necessari colloqui per stabilire in che modo le sanzioni statunitensi andranno a colpire le compagnie operanti in Iran.
La banca d’investimenti statunitense Jefferies ha inoltre aggiunto in una nota che prevede che le esportazioni di greggio iraniano inizieranno a calare nei prossimi mesi, ma ha aperto altresì alla maturazione di diversi scenari, alcuni dei quali contrastanti. Vi sono infatti stati chiari segnali di come altri membri dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) possano aumentare la loro produzione proprio per contrastare il calo di export dell’Iran e, dunque, mantenere un saldo “zero” nelle variazioni del greggio in circolazione dopo le nuove sanzioni americane.
Nel suo report, Jefferies ha chiaramente precisato come l’OPEC abbia la capacità “di sostituire le perdite iraniane” e ha anche aggiunto, dall’altra parte, che però sul medio termine il mercato correrà il rischio di affrontare un livello precario di capacità di riserva.
A conforto sulla possibilità che forse i rischi di un surriscaldamento eccessivo del prezzo del barile siano eccessivi sono inoltre arrivati gli ultimi dati di produzione estranea all’OPEC, i cui livelli hanno raggiunto un altro record massimo la settimana scorsa, toccando quota 10,7 milioni di barili al giorno, il 27% in più rispetto alla metà del 2016. La produzione degli Stati Uniti si avvicina di molto a quella del miglior produttore, la Russia, in grado di pompare circa 11 milioni di barili al giorno. Un dinamismo dimostrato anche dalle ultime statistiche elaborate dalla società di servizi energetici Baker Hughes della General Electric, per cui il numero di piattaforme operative sarebbe oggi il più elevato dal mese di marzo 2015. Di queste, più della metà si trovano nel bacino del Permiano, nel Texas occidentale e nel New Mexico orientale, il più grande giacimento petrolifero di shale oil dell’isola. Le unità attive sono aumentate di cinque questa settimana a 463.
Per gli investitori, l’impressione è ora che il momento sia particolarmente aleatorio per compiere delle previsioni sostanziali di breve e di medio termine. È tuttavia molto probabile che le stime di chi punta a un barile sopra quota 80 e 90 dollari nei prossimi trimestri non siano lontane dalla verità, considerato che le tensioni internazionali potrebbero far pagare il proprio prezzo in termini di apprezzamento del Brent.
Attenzione inoltre allo spread che potrebbe maturare ancora nei confronti del Wti. Secondo il già rammentato report pubblicato da Bank of America, il differenziale tra i due potrebbe mantenersi intorno ai 6 dollari per barile per tutti i prossimi mesi e, soprattutto, congelarsi in maniera quasi stabile nel corso del 2019.
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