Euro
Perchè l’Italia ha bisogno di una svalutazione e perché questo non ha nulla a che vedere con lo “stampare denaro per svalutare”.
Scrivo questo articolo in chiarimento ad alcune osservazioni sulla moneta unica pervenutemi all’interno dei commenti di Scenaripolitici (sito gemello di Scenarieconomici).
Scopo del post è chiarire il perché, secondo chi scrive, è imperativo per l’Italia liberarsi dall’Euro, riappropriarsi di una propria valuta (o in seconda battuta, come compromesso, legarsi ad altri paesi simili tra cui la Spagna, vedi opzione Dual Currency) e lasciarla liberamente oscillare rispetto ad EUR ed altre valute; cosa che comporterà, secondo molti economisti e secondo gli analisti delle principali banche d’affari mondiali, una svalutazione della nuova divisa italiana di un 20-30% rispetto all’Euro.
Partiamo proprio dalle valute. Tra i profani c’è molta confusione, l’idea comune è che chi vuole uscire dall’Euro vorrebbe tornare alla Lira e poi svalutarla “stampando” come forsennati.
Questa idea è completamente errata e priva di ogni fondamento, o meglio non necessaria e di dubbia utilità. L’Italia non stamperebbe niente, ritirerebbe gli EUR e sostituirebbe con nuova divisa (modi già studiati da tempo, o comunque proposte qualificate non mancano), la svalutazione invece avverrebbe nei mercati finanziari e si assesterebbe con grande probabilità su cifre pari a quelle dell’inflazione cumulata dall’Italia sul blocco “core” dei paesi EUR, appunto un circa 20-30%, che è proprio il differenziale di competitività che il nostro paese ha accumulato in questi anni di moneta unica nei confronti della Germania.
Per capire questo occorre conoscere e capire il mercato valutario. Ogni secondo, avvengono transazioni di immensi quantitativi di denaro per compravendere questa o quella valuta a seconda delle necessità, a seconda delle aspettative. Per quanto persistano sul mercato attori di peso, come le grande banche d’affari, gli Hedge Fund o come le Banche Centrali, si può definire il mercato valutario come un mercato enorme ed estremamente liquido; un mercato in cui anche noi ci rifacciamo ogni qualvolta compriamo un prodotto dallo scaffale che avrà sempre una componente estera (pensiamo all’energia).
Ogni valuta è prezzata secondo per secondo dall’incrocio di domanda e offerta. Poi ci sono degli effetti distorsori, enormi se vogliamo. Elenco rapidamente alcuni esempi: USD (Dollaro USA) è valuta di riserva mondiale ed usata per gli scambi internazionali, il valore di USD è drogato da questa domanda forzosa da parte di quasi tutto coloro che vogliano compravendere materie prime; Swiss National Bank (SNB) si adopera nello stampare enormi quantitativi di Franchi Svizzeri (CHF) al fine di comprare EUR ed impedire la rivalutazione del CHF su EUR; la Cina fa la stessa cosa su USD; Bank of Japan (BoJ) ha iniziato una politica di svalutazione dello Yen (JPY), questo porterà la risposta di altri stati che non saranno molto contenti di rivalutare la propria divisa nazionale. Ed è proprio in casi come questi che avere una propria divisa permetterebbe di difendersi.
Lo Stato Italiano dovrebbe avere tra le proprie mani gli strumenti di governo della moneta, dovrebbe potersi difendere da una eventuale guerra valutaria, dovrebbe decidere autonomamente i tassi in base alle necessità (come possono i tassi BCE andar bene per 17 stati diversi?).
Quindi avere una propria valuta non significa “stampare a nastro”. E’ una sciocchezza che non vuol dire nulla. Praticamente tutti gli stati hanno una propria valuta, ma non tutti sono lo Zimbabwe.
Gli operatori economici sanno che per l’economia italiana EUR è sopravvalutato di 20-30%. Ed è anche per questo che in caso di nuova valuta avremmo probabilmente una svalutazione di questo ordine di grandezza. Potremmo arrivare ad un rapporto di cambio con USD di 1:1 circa e con EUR di 0,7-0,8.
Noi abbiamo bisogno di una valuta che rispetti i nostri fondamentali. Non traiamo alcun vantaggio da una valuta sopravvalutata, siamo invece travolti dagli svantaggi.
Il concetto è che solitamente nessuno è contento di rivalutare e che la svalutazione è usata come arma da tutti per difendersi in momenti di difficoltà (nel 2008 la Svezia ha svalutato la Corona (SEK) del 50% su USD e del 30% su EUR, idem la Sterlina Britannica (GBP) nello stesso periodo ha svalutato pesantemente contro EUR e USD. Tradotto in chiave EUR: mai stare in una unione valutaria se sei il partner debole perché hai una moneta sopravvalutata per la tua economia. Viceversa per il partner forte che gode dei benefici della svalutazione rispetto a ciò che sarebbe la sua valuta nazionale.
Le valute riflettono la forza dell’economia di una nazione. Se una nazione attraversa un momento di particolare prosperità e di grande competitività, è molto probabile che la sua valuta si apprezzerà per via della grande mole di acquisti della sua divisa, condizione necessaria per comprare i prodotti di quella nazione.
Quindi, se noi 20 anni fa compravamo una Volkswagen pagando in Lire (LIT), l’importatore l’avrebbe poi pagata in Marchi Tedeschi (DEM), vendendo Lire. Quindi al termine della transazione il DEM si sarebbe rivalutato nei confronti della LIT, la LIT si sarebbe svalutata nei confronti del DEM.
Al netto di politiche monetarie non convenzionali (sui cui effetti ho accennato sopra) se un paese (es. ITA) importa da un altro (es. GER), più di quanto esporta, il risultato sarà che la divisa del primo paese si svaluterà nei confronti di quella del secondo. E’ la legge della domanda e dell’offerta.
Quali effetti quindi? Semplice, per l’italiano sarà meno conveniente comprare tedesco e per il tedesco sarà più conveniente comprare italiano. Lo squilibrio è disincentivato.
Tradotto, con le valute nazionali, ogni disallineamento dei prezzi su prodotti analoghi, nel medio periodo è molto probabile che verrà riassorbito con oscillazioni delle valute. Fattore che impedirà al paese più competitivo di distruggere le altre economie e renderà peraltro inutile la ricerca di quella competitività esasperata che ha come effetto ultimo la distruzione dei redditi (di lavoratori e imprenditori) che vengono sacrificati su quell’altare giorno dopo giorno. Cosa che stiamo vivendo sulla nostra pelle.
Facciamo un’ulteriore analisi sui cambi.
All’introduzione dell’EUR (1999, ma per ITA cambi fissi dal 1996):
per 1 USD erano necessarie 2200 LIT (1,13 EUR) circa
per 1 GBP 3000 LIT (1,54 EUR).
Oggi
per 1 USD servono 0,74 EUR, pari a 1400 LIT. (USD -37% su EUR)
Per 1 GBP servono 1,19 EUR, pari a 2300 LIT. (GBP -23% su EUR)
Un Americano in vacanza in Italia, nel 1999 veniva con 2000 USD e cambiava 4.400.000 LIT.
Un Americano in vacanza in Italia, nel 2013 viene con 2000 USD e cambia 1480 EUR.
Iniziate a capire? Il turismo è come l’export, hanno segno “+” nella bilancia dei pagamenti, ricevi soldi dall’estero in cambio di servizi, beni, ecc. Per le nostre industrie il ragionamento è similare. Se hai un sistema industriale votato all’export DEVI stare attento perché i cambi sono importanti, è inutile pagare un po’ meno l’energia se poi gli stabilimenti chiudono perché il cambio sfavorevole uccide l’export. E se poi sopra i costi energetici ci metti tasse perché lo stato è in difficoltà a causa del crollo del gettito? Vi sembra di pagare poco la benzina ora? No. E’ quasi ai massimi.
La produzione industriale di uno stato è uno tra i parametri più importanti, di certo lo è per l’Italia.
Uno stato che realizza internamente molti prodotti è uno stato che dovrà importare di meno e fatalmente sarà uno stato che tenderà ad esportare di più. Se l’Italia avesse il proprio apparato industriale funzionante a pieno regime probabilmente non avrebbe avuto problemi di bilancia dei pagamenti.
Affinché ciò accada è fondamentale, in un sistema di mercati aperti e con EUR come valuta comune, la competitività. Ovvero riuscire a vendere i prodotti agli stessi prezzi (o inferiori) rispetto alla concorrenza.
Il prezzo di un generico prodotto che possiamo acquistare si compone di molti fattori, possiamo citare rapidamente le materie prime, i costi energetici, acquisto e manutenzione di attrezzature, capannoni e uffici, burocrazia, la manodopera, le tasse, il profitto dell’imprenditore (quando c’è).
Semplificando, alcuni di questi parametri sono più o meno standard per tutti (materie prime), altri invece sono determinati in parte dallo stato perché stabilisce più o meno direttamente i prezzi (costi energetici) o perché, come nel caso della tassazione, ha sempre un peso importante (tasse su manodopera, acquisto e manutenzione attrezzature, capannoni, uffici), altri ancora sono determinati completamente dallo stato (ulteriori tasse, burocrazia); poi rimangono manodopera e profitto, le uniche voci realmente comprimibili a produttività più o meno inalterata. Si è visto in Italia, che all’occorrenza, i lavoratori, messi spalle al muro, hanno dovuto accettare condizioni al ribasso, alcuni (-1 milione è il saldo) hanno perso il lavoro; non va meglio nemmeno per quelli che una volta erano chiamati i “padroni”, molte attività economiche hanno chiuso, molti imprenditori, strozzati dai debiti si sono suicidati. Queste disgrazie che ci colpiscono sempre più da vicino non entano in nessuna statistica e vengono ignorate.
Chiaramente la bravura dell’imprenditore gioca ancora un ruolo determinante, non c’è sistema che permetta all’imprenditore poco capace di avere successo. Ci sono invece sistemi che non permettono nemmeno a chi è capace di intraprendere con buon esito.
Fatta questa disgressione torniamo alla produzione industriale.
In Italia abbiamo avuto un forte crollo della produzione industriale. Il 18% dal 2005. Ciò è estremamente allarmante per un paese come l’Italia. Questo avviene essenzialmente per il fatto che le nostre aziende hanno perso competitività. Non riescono a collocare i propri prodotti sul mercato a prezzi analoghi alla concorrenza estera.
Le conseguenze sono semplici da intuire: non riusciamo più a vendere all’estero perché i prodotti locali (o di altri paesi) sono più economici dei nostri; in seconda battuta non riusciamo più nemmeno a vendere in Italia perché, appunto, il prodotto estero arriva nei nostri scaffali ad un prezzo più basso e scalza il prodotto italiano.
Oppure, il prodotto italiano, per esempio la grande firma della moda, vende sul mercato italiano i propri capi, realizzati all’estero, dove la manodopera è più economica, cancellando così quelle aziende, magari più piccole e meno blasonate, che realizzano in Italia.
La fuga delle grandi aziende italiane, così come la vendita, fa un male smisurato all’economia del nostro paese. In primis non c’è che un minimo ritorno di tassazione, i profitti vengono spostati all’estero, dove vengono spesso sottoposti a regimi di tassazione ad hoc (vedere Apple e Google in Irlanda); secondo aspetto, non meno importante, vengono bruciati posti di lavoro con le conseguenze che tutto questo comporta (disoccupazione, moderazione salariale ed infine recessione).
In estrema analisi il sistema economico che si sta imponendo è basato su “schiavi che vendono a disoccupati”. Si capisce rapidamente che un sistema di questo tipo non ha futuro.
I paesi dovrebbero recuperare il proprio tessuto produttivo, pensare di procedere ulteriormente nella dismissione dell’impianto industriale italiano è semplicemente suicida. Rimanere legati ad una moneta comune a paesi come la Germania e satelliti, che di fatto dettano la linea, inibisce possibili inversioni di tendenza. Paesi che per struttura riescono a piazzare il prodotto sul mercato ad un prezzo inferiore vinceranno sempre, ed in presenza di rigidità del cambio, l’unica maniera per recuperare questo differenziale (che ogni anno aumenta per via dell’inflazione diversa) è limare la differenza di prezzo pagando meno i lavoratori (per i motivi suddetti).
Facciamo un esempio pratico, qualcosa a cui avevamo già accennato prima.
L’Italia e la Germania sono certamente concorrenti nel mercato delle auto (in realtà i settori sono molti, ragion per cui spesso l’interesse della Germania è agli antipodi col nostro),
Ipotizziamo che, in regime di flessibilità dei cambi, per esempio nel 1995 il modello I dell’Alfa Romeo costasse 50 milioni di lire. Allo stesso tempo il modello G dell’Audi stava su prezzi analoghi, ovviamente in Marchi Tedeschi. Le due macchine erano universalmente riconosciute come del tutto similari. Succedeva quindi che molti, in Italia, in Germania e negli altri paesi comprassero l’Alfa I, molti altri invece preferivano l’Audi G. Alfa ed Audi stavano entrambe sul mercato con buona soddisfazione. Due macchine della stessa classe con qualità simili e prezzi identici ottenevano risultati di vendite simili.
L’anno successivo, ipotizzando che la Lira ed il Marco fossero rimasti sui livelli dell’anno precedente, succede però una cosa del tutto naturale, due paesi diversi hanno inflazioni diverse (ipotizziamo Germania 2%, Italia 4%), questo ricade a breve giro sul costo dei prodotti. Semplificando potremmo dire che nel 1996, visto che Lira (da ora LIT) e Marco (da ora DEM) non si sono mossi, l’Alfa riuscirà a vendere la sua Alfa I a 52 milioni di LIT (50 + 4%), l’Audi G invece sarà disponibile nelle concessionarie al corrispondente in DEM di 51 milioni di LIT (50 + 2%).
E’ molto probabile che l’Alfa Romeo venderà in questo anno meno Alfa I rispetto alle Audi G vendute dalla concorrente. L’inflazione è ricaduta nei costi di produzione (salari ma non solo) ed ora l’Alfa I fatica un pochino a stare sul mercato.
Questo processo ovviamente è ribaltabile su tutta o quasi la produzione, il risultato è che ad un certo punto la richiesta di DEM per acquistare prodotti tedeschi sarà così più alta della richiesta di LIT per acquistare prodotti italiani che il DEM andrà verso una rivalutazione nei confronti della LIT (e forse anche nei confronti di altre divise); vista dall’altra parte la LIT si svaluterà nei confronti del DEM (e forse anche nei confronti di altre divise). La svalutazione sarà tanto pesante quanto necessario è il riallineamento, se la situazione fosse equilibrata come il primo anno del nostro esempio sarà lecito pensare che non ci saranno grossi movimenti della LIT al ribasso, viceversa, quando parecchi settori iniziano a perdere competitività, fatalmente il paese inizierà ad importare più di quello che esporta ed a quel punto, prima o poi, le due divise troveranno un nuovo equilibrio per via della continua domanda di DEM (e conseguente offerte delle altre divise compresa LIT) che tenderà quindi ad aumentare di prezzo.
Questo accade in regime di cambi fluttuanti. Notare come la Germania avrebbe comunque un vantaggio, più o meno periodico, derivato dal fatto di avere un sistema più maturo e competitivo, ma questo vantaggio è limitato (per via della possibile svalutazione degli altri) e non comporta la deindustrializzazione degli altri paesi.
In conclusione, in Italia stiamo discutendo di questioni secondarie, IMU e IVA, comunque la si veda, sono dettagli.
L’Italia ha un gap del 20-30% di competitività che non può essere recuperata in tempi brevi (cioè in tempi utili ad evitare la completa deindustrializzazione), le soluzioni sono essenzialmente due, tre se ci piace sognare:
– taglio feroce dei salari (anche del 30-50%)
– uscita dall’Euro
– Stati Uniti d’Europa (se pensate che la Germania accetterà trasferimenti ai periferici..)
Nel primo caso passeremmo per una depressione (termine economico, non clinico, almeno non nelle intenzioni dell’autore) storica che porterebbe senza molti dubbi all’esplosione del debito pubblico con coseguente fallimento dello stato italiano. E’ la Soluzione Grecia, per intenderci. Se noi tagliamo prepotentemente i salari il PIL ne verrà impattato in maniera devastante, il Debito/PIL andrebbe alle stelle e sarebbe chiaro agli investitori che una nazione che fa -10% di crescita non potrà mai ripagare un debito nell’ordine del 200%. Chiedo scusa ai lettori se arrivati a questo punto butto dei numeri un po’ così, abbiamo fatto internamente delle analisi, se interessa elaboreremo qualcosa pubblicabile al riguardo. Il succo è che se recuperi tagliando i salari, diventi competitivo ma saltano i conti dello stato perché crollerebbe PIL e gettito, quindi recessione e debito fuori controllo.
Nel secondo caso si aprirebbe un universo perché ci sono varie strade. Si passerebbe comunque giocoforza per una ridenominazione del debito nella nuova valuta e sarebbe il caso di prevedere, magari per un periodo di tempo limitato, un qualcosa di simile alla scala mobile onde evitare le ricadute inflattive sui salariati.
Capitolo inflazione, è stimabile, stando ai precedenti, un inflazione del 10% circa rispetto alla svalutazione. Nel nostro caso potremmo pensare quindi 2-3 punti in aggiunta all’attuale 1%. E’ opinione personale che, visto gli alti livelli di disoccupazione (vedi curva di Philips), potremmo avere numeri inferiori (nel 92 non ci fu inflazione e svalutammo in maniera analoga a quella prevista ora).
Sul terzo caso non mi soffermerei perché visto il comportamento tedesco fino ad oggi è un qualcosa che non esiste se non nella fantasia di qualcuno. Se pensate che il bavarese, già infastidito per i trasferimenti al berlinese senza lavoro, accetterà di farsi carico del forestale calabrese.. beh allora siete sul sito sbagliato. Consiglio fantasyitalia.it.
Andrea Lenci (@andrealenci)
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admin
26 Settembre 2013 at 18:16
Raramente si trova in rete qualcosa di succoso come questo articolo.
L’articolo si lancia in una sequela di insulti (stupidaggini, voltastomaco, cialtronerie, etc) tipiche di una persona sostanzialmente incapace di dire la propria serenamente, senza presupporre di essere Dio.
L’unico richiamo interessante e’ a Huerta de Soto, e l’autore sa perfettamente che la posizione di costui sull’Euro non e’ particolarmente popolare tra i colleghi della scuola austriaca.
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