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Perché le aziende e le famiglie italiane sono penalizzate nel pricing dei finanziamenti

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Intervento convegno Indici sintetici di costo e sindacabilità del pricing dei finanziamenti promosso dall’Associazione italiana dei Periti e dei Consulenti Tecnici nominati dall’Autorità Giudiziaria svolto a Roma il 29.1.18 presso la Sala Conferenze Fondazione Lelio Basso (di A.M. Rinaldi)

Cercherò di mettere in evidenza alcuni aspetti economici e i relativi riflessi nel sistema economico italiano in merito al pricing dei finanziamenti. E’ quanto mai opportuno evidenziare che il sistema Italia è ancora per sua natura fortemente bancocentrico e l’accesso diretto ai mercati per l’approvvigionamento delle esigenze di finanziamento rappresenta comunque una porzione modesta rispetto alle necessità complessive anche in relazione alle difficoltà di accesso dovute alle dimensioni strutturali delle PMI.

Il sistema bancario italiano ha subìto nell’ultimo quarto si secolo una profonda riorganizzazione dei centri di business e di profitto essendo venuti meno ad esempio quei capisaldi del passato come l’intermediazione in cambi e nella negoziazione titoli, ivi comprese le cosiddette redditizie compensazioni interne, oltre a una copiosa contrazione dei margini d’intermediazione fra tassi passivi e attivi determinati, non solo dal trend mondiale dei tassi, ma soprattutto dall’appartenenza al sistema monetario europeo e naturalmente ai sensibili aumenti dei costi strutturali di gestione.

Anche le politiche intraprese dalla BCE con i cd stimoli monetari, dai tassi negativi al QE che hanno fornito ingentissima liquidità al sistema, non hanno contribuito a far diminuire, come negli intenti, il risultato finale fra il funding e princing. Detto questo è intuitivo che l’intero sistema bancario abbia riversato enormi aspettative sulla capacità di trarre profitti fra i differenziali di approvvigionamento e impieghi, costretto inoltre a spalmare su di essi anche le sempre più onerose situazioni di inesigibilità generate dalla crisi economica generale in atto da una decina d’anni. Non scordiamo che la crisi mondiale innescata nel 2008 è stata essenzialmente una crisi riconducibile ai debiti privati che ha letteralmente contagiato, per mancanza di controlli e regolamentazione, l’economia reale per colpa di quella prettamente speculativa. Questo contagio è stato pagato pesantemente dall’economia reale sui cui attori sono stati rivisti al rialzo le probabilità di default con attribuzioni di rating sempre più penalizzanti.

La sopravvivenza delle stesse banche è stata letteralmente scaricata sulle aziende e sulle famiglie, in Italia ne sappiamo qualcosa, essendo costrette queste ultime “obtorto collo” a costi di finanziamento notevolmente superiori rispetto a quelli ottenuti dagli omologhi degli altri paesi europei con l’ulteriore handicap di non poter “recuperare” la competitività persa dai maggiore oneri di finanziamento con l’aggiustamento del livello del cambio essendo il nostro Paese in regime di cambi fissi. Praticamente le aziende e le famiglie sono state messe nelle condizioni di subire un differenziale reale e “secco” senza possibilità di “compensazione” del cambio per effetto dell’appartenenza all’euro. Effetti nefasti per tutto il sistema Italia, costretto a costi di finanziamento estremamente onerosi rispetto alla diretta concorrenza, indotte a rinunciare a porzioni di utili e di conseguenza alla esigua, se non nulla, destinazione di risorse per gli investimenti in ricerca e sviluppo.

Pertanto ne discende che è possibile affermare che il differenziale del tasso medio di finanziamento fra due aziende concorrenti è inversamente proporzionale al tasso medio degli investimenti. Basta ricordare che molte aziende tedesche, le più dirette concorrenti in ampissimi campi merceologici, possono avvalersi di tassi di finanziamento inferiori di 3-4 punti percentuali rispetto a quelle italiane (con casi limite di finanziamenti a tassi negativi) avvantaggiandole nella destinazione di utili e risorse in innovazione e ricerca con il risultato di diminuire drammaticamente la nostra competitività. Anche in questo caso il cambio fisso non ha permesso di compensare, o almeno attenuare, i differenziali dei tassi di finanziamento. Ora credo che sia chiaro il motivo per il quale ad esempio le aziende automobilistiche tedesche sfornano modelli nuovi in continuazione e il Gruppo FCA con il contagoccia al punto da essere stati costretti a delocalizzare, dopo i siti produttivi, anche le sedi amministrative e fiscali. Scelte dolorose d’altronde di molte aziende italiane, ma giustificate dalla ricerca affannosa di condizioni di finanziamento meno onerose non possibili in situazioni domestiche.

Inoltre le regole perseguite dall’Unione Bancaria in ambito
europeo hanno penalizzato e condizionato oltremodo il sistema bancario italiano con la conseguenza di aver ulteriormente scaricato sulle aziende e famiglie i maggiori costi e vincoli concepiti e forgiati non per le nostre strutturali esigenze. La stesso modello economico preso a fondamento e supporto dell’Unione monetaria europea è essenzialmente deflazionistico e le ripercussioni sulla propensione iniziale all’indebitamento privato, favorito in primis dai bassi tassi, ha da una parte fatto esplodere gli impieghi, ma dall’altro ha notevolmente diminuito nei soggetti debitori la capacità di rimborso aumentandone il rischio di credito.

In che modo è possibile alleviare questi gap? Una soluzione potrebbe essere la ricostituzione di una o più banche pubbliche con esclusiva vocazione commerciale, a scanso di equivoci, con l’originario intento delle banche d’interesse nazionale, disponibili a fornire credito a condizioni migliorative rispetto alle attuali e perseguendo obiettivi di rilancio dell’economia e dei consumi interni. Naturalmente deve essere una proposta che scaturisca da serie e pianificate strategie di politica economica promosse dalla classe politica dirigente. In mancanza di ciò il sistema attuale è destinato a creare sempre più disagi a carico delle imprese e delle famiglie con l’impoverimento progressivo e irreversibile della nostra capacità imprenditoriale e di propensione al risparmio.

Antonio M. Rinaldi


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