Attualità
PERCHE’ ABOLIRE L’IMPOSTA SULLA PRIMA CASA? (di Giovanni Bottazzi)
Il giorno 2 settembre scorso il presidente del Consiglio dei Ministri ha avanzato la proposta di abolizione dell’imposta TASI sulla prima casa. Tra le motivazioni che il Governo avrebbe addotto ho captato queste due. La prima è che l’imposta sulla casa è una tra le imposte più odiate dagli italiani; la seconda è che un’elevatissima quota di famiglie italiane abita nella casa di proprietà: secondo l’ISTAT, il 72,1% delle famiglie censite nel 2011, percentuale che sarebbe cresciuta successivamente a quasi l’80%, giusta una stima ottenuta da un’elaborazione dell’Agenzia dell’entrate sulla base dei dati ISTAT.
Ad un esame attento le due motivazioni guardano a due aspetti della stessa situazione: primo, l’atteggiamento negativo dei contribuenti verso l’imposta sulla casa, che risulta difficile da eludere o evadere e perciò odiata dal singolo contribuente; secondo, sono molti i cittadini a odiarla perché alla stessa soggetti. Così, entrambe le motivazioni della decisione del Governo sono in sostanza una sola, quella di assecondare l’atteggiamento espresso da una larga platea di contribuenti. La decisione di abolire l’imposta ha quindi lo scopo di ricerca del consenso, ossia, è di tipo elettorale.
Ben diversa sarebbe la proposta se il Governo volesse seguire le ragioni del Fisco. Dovrebbe essere ben lieto non solo di poter contare su una platea così ampia di potenziali contribuenti – anzi, magari le famiglie italiane fossero tutte proprietarie della casa in cui abitano, non solo otto su dieci! – ma anche di disporre di un’imposta così affidabile, visto che la casa difficilmente sfugge all’occhio dell’ente impositore. Proprio per questo la casa è considerata in tutto il mondo come un cespite sicuro su cui basare le imposte: è un bene al sole, in quanto “immobile” non può spostarsi all’estero, come invece avviene per i valori in titoli, appunto detti anche valori mobiliari, che è difficile assoggettare a nuove imposte senza vederli evaporare e fuggire altrove. In altri termini, se Renzi parlasse a nome del Fisco, anziché proporre l’abolizione della TASI avrebbe buone ragioni per tenersela ben stretta.
Socialmente la decisione di abolizione della TASI non è molto più virtuosa di quella presa a suo tempo dal governo Berlusconi, manovra a cui i governi successivi dovettero però rimediare, costringendo il contribuente a pagare anche gli interessi; ma differisce da quella per il fatto che ora esonera tutti, ricchi e poveri, mentre allora escludeva dall’imposta la sola parte che era ancora soggetta all’imposta, quella dei contribuenti più ricchi, visto che i meno abbienti erano già stati esentati da un governo precedente.
Va anche esaminata la reazione dei contribuenti italiani, quelli che rientrano in quell’80% delle famiglie ora alleggerite dell’onere della TASI sulla prima casa. Sanno benissimo che questa manovra non è un regalo, perché finanziata con i loro stessi soldi, in forza del vincolo di bilancio. L’abolizione della TASI sulla prima casa determina infatti un importante calo del gettito fiscale e questo, a meno di un’improbabile riduzione delle spese, dev’essere compensato in altro modo, con altre imposte. Sanno altrettanto bene che quest’onere non può essere riversato sul restante 20% delle famiglie, quelle che abitano in casa non di loro proprietà, le quali sono verosimilmente meno doviziose di loro. Non hanno quindi difficoltà a dedurne che quell’onere ricadrebbe ancora proprio su di loro, sotto il nome di un’altra imposta, magari di meno facile accertamento ed esazione per il Fisco; imposta che peserebbe magari in un modo più o meno equamente distribuito fra loro come contribuenti, in modo non noto, visto che non sanno bene ancora quale nuova importa sostituisca quella abolita.
Sarebbe invece molto più saggio se, uscendo da una perenne situazione di emergenza, si studiasse finalmente e si mettesse a regime un sistema di imposte definito con coerenza, su un arco temporale abbastanza lungo, in cui le imposte dovrebbero essere mantenute senza troppi cambiamenti. La stabilità del sistema impositivo, anche nella loro definizione nominale, è un valore apprezzato, mentre i cambiamenti di denominazione risultano quanto mai fastidiosi. Basti ricordare lo sconcerto causato dal balletto delle denominazioni da ICI, a IMU, a TASI…
Poi, secondo le esigenze delle entrate e secondo il criterio del minimo disturbo per i contribuenti, nel caso di necessità si attuerebbe la messa a punto del sistema, che dovrebbe essere lasciata alla manovra “fine” delle aliquote, adeguandole via via alle nuove situazioni. Così ad esempio, nella presente circostanza sarebbe bastato ridurre le aliquote della TASI, molto tranquillamente. Certo, questa decisione non avrebbe avuto la stessa risonanza mediatica, un elemento di contorno che sembra ormai acquisito come obiettivo non secondario di questo fastidioso metodo di governo… Questione di stile.
L’abolizione sic et simpliciter della TASI per quasi tutti i tipi di abitazione non trova invece alcuna giustificazione di giustizia distributiva. Pur lasciando permanere l’imposta su ville di lusso e castelli (ma qui attenzione: in alcuni casi i castelli costano molto in manutenzione, e penalizzarli con le tasse significherebbe destinarli magari all’abbandono), la semplice abolizione per tutto il resto e per tutti equivale ad un regalo proporzionale, ossia lasciare di più a chi di più ha; e tale sgorbio logico andrebbe corretto con qualcosa che incidesse in modo ancora per lo meno proporzionale al reddito. Questo ad evitare che il vuoto di incassi fiscali generato si riverberi magari sulla spesa delle regioni, magari sui servizi sanitari prestati, magari sui ticket sanitari, che escludono bensì i redditi più bassi, ma non sono certo proporzionali.
E questa non è solo questione di stile.
Giovanni Bottazzi
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