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Crisi

Parmigiano VS Pecorino

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La crisi deflattiva che attanaglia l’€uro-Zone e l’Italia in particolare sembra non risparmiare alcun comparto e anche il Re dei formaggi, il Parmigiano Reggiano DOP, ne è stato pienamente investito.

L’intera filiera del pregiatissimo formaggio occupa circa 20.000 addetti e si fa sempre più forte la preoccupazione che il perdurare di tale dinamica possa andare ulteriormente ad incidere su di un comparto che da diversi anni vede una riduzione degli utili con conseguente chiusure di stalle, siti produttivi e preoccupante calo occupazionale.

Nel 2012, il prezzo medio all’ingrosso per il prodotto con stagionatura di 12/24 mesi era già basso (€ 9 al kg), nel 2013 scese a € 8, mentre per il 2014 è previsto essere di poco superiore a € 7. Ovvero un ulteriore ribasso del -12% che lo porterà ad attestarsi molto al di sotto del prezzo minimo necessario alla sopravvivenza della filiera stessa, considerato intorno ad €9,50 al kg.
Tutto ciò si ripercuote fortemente sui produttori di latte che vendono il loro prodotto “al buio”, un anno prima di saperne il prezzo che è determinato da quello del prodotto finito. Probabilmente il latte del 2013 sarà pagato a € 0,50, ben il 10% in meno di quanto costa loro. In pratica tutto il comparto sta vendendo sottocosto e questo, si sa, è il primo passo verso il fallimento.

I produttori, in tempi di credit-crounch, per far fronte alla liquidità necessaria, sono costretti a cedere il prodotto ai grandi gruppi d’acquisto molto prima della stagionatura ottimale, rinunciando a buona parte dei ricavi. È evidente che l’offerta sopravanza abbondantemente la domanda e il consorzio, per far si che i prezzi possano risalire, ha chiesto un taglio della produzione del 5%, pari a 150.000 forme in meno. Sembra che il numero giusto di forme/anno sia intorno ai 3 milioni di pezzi ma negli ultimi anni la produzione è stata di ben 3,3 milioni.

Basterà ridurre del 5% la produzione per far risalire i prezzi? Io credo di no.

Il consumo di parmigiano è per il 70% nazionale, mentre il 30% è destinato all’export. In un momento di grande contrazione di spesa da parte delle famiglie italiane, che per via della crisi sono costrette a scegliere prodotti meno costosi, si aggiunge la perdita del 15% (pari a ca. 150.000 forme) di export a causa delle sanzioni alla Russia.

Praticamente il parmigiano reggiano (ma anche il grana padano) è inflazionato e sta subendo la stessa dinamica che interessa il petrolio.

Posso tranquillamente affermare che l’inflazione del Re dei formaggi scaturisce dalla deflazione che da 5 lunghi anni interessa il nostro Paese.
Una volta il parmigiano era “roba per ricchi” ma con l’aumentare dei redditi reali disponibili è divenuto compagno ideale di tutte le tavole italiane: ciò ha portato ad un aumento crescente della richiesta e di conseguenza del prezzo, dei margini e degli investimenti. Negli anni a venire tutto questo ha addotto occupazione aggiuntiva e benessere generalizzato alle zone di produzione.
Adesso che siamo tornati ai redditi reali di 30 anni fa il parmigiano è ritornato ad essere “roba per ricchi” e il suo consumo è sceso, e lo ha fatto asimmetricamente ad una produzione che continuava ad aumentare.

Il pecorino romano, il formaggio plebeo per eccellenza, nel 2007 costava circa la metà del grana padano e addirittura un terzo del parmigiano. La deflazione dei consumi ha via-via spinto masse di italiani a preferirlo per ovvi motivi. E come sempre accade quando un prodotto diviene marginalmente più raro, il pecorino ha cominciato a salire di valore, sino a sopravanzare abbondantemente i suoi illustri antagonisti: in tre anni il suo prezzo è salito del +170% (il latte di pecora del +135%), mentre di converso, quello del parmigiano è sceso del 22% solo negli ultimi 2 anni.

Questa dinamica è frequente nei prodotti alimentari: nel 2014 l’olio di oliva è rincarato del 100% poiché la produzione si è quasi dimezzata (mosca olearia), mentre alcuni anni fa abbiamo visto l’impennarsi del prezzo dei pollami e dei suini “grazie” al morbo della “mucca pazza” che fece crollare il consumo di carni bovine. Anche il valore del pecorino è aumentato a causa di fattori contingenti (alcune patologie ovine hanno limitato la quantità di formaggio offerto sul mercato) ma ad innescare la salita dei prezzi è stato fondamentale il comportamento delle masse che per necessità hanno dovuto cambiare prodotto, abbassando il proprio target di spesa. È anche vero che il parmigiano è tra i prodotti alimentari più falsificati al mondo e che spesso la grande distribuzione lo usa nei volantini come specchietto per le allodole ma il consorzio avrebbe dovuto operare quel taglio di produzione già da qualche anno, magari abbinandoci anche il pieno possesso del mercato distributivo.

Oggi tutta la filiera è a forte rischio: per riportare i prezzi a cifre ragionevoli servirebbe un taglio di produzione quantomeno TRIPLO del blando 5% annunciato, soprattutto in vista di quando finiranno le contingentazioni sul latte (marzo 2015) e il prezzo potrebbe crollare dai 52 centesimi/litro attuali ai 32 ipotizzati dagli analisti, spingendo ancora altre aziende verso la trasformazione con ulteriore e definitivo crollo dei prezzi dovuto ad iperinflazione di prodotto.

È chiaro che un taglio importante della produzione comporterebbe la chiusura di altre stalle e siti produttivi che si ripercuoterebbero nondimeno sull’occupazione ma questa evenienza accadrà ugualmente poiché molte aziende non raggiungeranno neanche il pareggio (BEP) e saranno costrette ugualmente a chiudere ma con molti più debiti.

Con gli scenari di rallentamento globale a cui stiamo assistendo risulta arduo pensare ad un considerevole aumento dell’export che possa sopperire a dei consumi interni in continuo collasso (per far quadrare i conti significherebbe spingere le esportazioni al +50%), quindi se non saranno di nuovo gli italiani a preferire il parmigiano la strada si fa tortuosa ed in salita. Del resto è cosa nota e collaudata: l’ultima stagione estiva ha portato un -20% di fatturato all’industria del turismo, nonostante il numero di stranieri arrivati in Italia sia cresciuto. Del resto i dati resi noti dalla Federconsumatori relativi alla spesa degli italiani nel mese di dicembre non lasciano dubbi: -7% rispetto al 2013 che diventa addirittura un incommentabile -40% se paragonati al 2007, ultimo anno prima della crisi.

Per rimettere gli italiani nelle condizioni di spendere non sarà sufficiente l’ipotetico taglio delle tasse tanto sbandierato dal governo e fortemente desiderato dagli impr€ndiori (mi risulta arduo solo immaginarne l’attuazione): all’Italia occorre una “shock terapy” che però non è attuabile con i parametri odierni.
Gli italiani hanno bisogno di un lavoro stabile e ben retribuito e questa eventualità non rientra nelle priorità della U€.

L’Italia ha URGENTE BISOGNO di riappropriarsi del proprio “diritto alla felicità” e per farlo deve necessariamente ritrovare una coscienza collettiva che la spinga a cambiare drasticamente strada e la porti ad abbandonare i dettami confusi provenienti da Bruxelles.

Sino a quando ciò non accadrà, gli amici del consorzio del parmigiano dovranno piegarsi al pecorino e subire.

Del resto a gran parte degli italiani piace.

Roberto Nardella.


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