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Il paradigma spagnolo e la Grande Redistribuzione

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In un tempo in cui gli stati sono diventati laboratori dove sperimentare le astruserie dell’economia applicata, vale la pena soffermarsi sul caso spagnolo, che ormai somiglia sempre più al paradigma di una nuova teoria che individua nella Grande Redistribuzione la soluzione finale per evitare le secca della Grande Stagnazione che minaccia la società globale.

Nessuno stato meglio della Spagna, per le sue dimensioni e la sua storia recente, poteva giovare alla bisogna.

E’ facile capire perché. La Spagna, già dai tempi buoni, è stata sempre additata come l’esempio da seguire per uno sviluppo rigoglioso e sostenibile. Quelli che si deliziano di cronache socio-economiche ricorderanno i primi anni duemila, quando la Spagna sui giornali veniva dipinta come una sorta di paradiso terrestre, dove lo sviluppo galoppava, la disoccupazione scendeva, i consumi erano alle stelle e tutti i giovani europei studiavano spagnolo (come ora studiano tedesco) sognando di trasferirsi a Barcellona per godersi la movida.

La meravigliosa narrazione del maistream celava una realtà dove il debito privato di famiglie e imprese – e vi faccio grazia di quello delle banche – saliva alle stelle, logico contraltare di un debito pubblico fra i più bassi dell’area e dove le imprese di costruzioni, artefici principali di tale boom, cementificavano le coste dove oggi campeggiano i cartelli di invenduto.

Sicché il conto corrente della Spagna si inabissava. Ma erano tempi in cui la bilancia dei pagamenti era poco nota alle cronache economiche (anche adesso, ma meno di prima). E inoltre era molto trendy parlare bene della Spagna, innalzata a epitome della riscossa dei paesi latini, storicamente poveri e inefficienti, sull’onda trionfante della globalizzazione.

Lo stesso gioco si sta tentando di farlo adesso. La Spagna si tende a raccontarla come un altro caso di successo: stavolta di uscita dalla crisi.

Nei mesi scorsi sulla stampa avrete letto del caso spagnolo. Del suo miracoloso risanamento che, pure se a costo di grandi sacrifici, traccia il solco di un risanamento globale. Gli stati perciò iniziano a guardare verso il paese dei toreri, cercando di capire come e a che prezzo siano riusciti a uscire fuori dal baratro che lo stava inghiottendo.

Ma è davvero così? E soprattutto chi ha pagato il prezzo?

Per rispondere a questa domanda mi servo dell’ultimo staff report del Fondo Monetario sulla Spagna uscito pochi giorni fa. E mi accorgo, sin dall’epigrafe, che ci sono sempre due modi per raccontare una storia: quello di chi guarda il bicchiere mezzo pieno e quello di chi lo guarda mezzo vuoto. Scegliere a quale dare priorità, nell’esposizione, è una precisa scelta politica, atteso che l’attenzione di solito supera raramente la prima pagina.

Se volessimo raccontarla dal lato dell’ottimista, allora potremmo dire che la Spagna dopo nove trimestri di crescita negativa la crescita è tornata positiva nella seconda metà del 2013. L’export sta performando bene, nota il Fmi, “conquistando quote di mercato”, mentre il conto corrente “è in surplus per la prima volta dal 1986″. “Il turismo è in boom e gli indicatori di competitività sono in crescita”.

Che bravi ‘sti spagnoli.

Lato finanziario, gli spread sono bassi a livello record, alimentati “dalla ritrovata fiducia negli asset spagnoli”, la domanda domestica sta crescendo notevolmente, anche quella privata, grazie alle migliori prospettive del mercato del lavoro. Dulcis in fundo, il consolidamente fiscale continua. Il saldo primario strutturale di bilancio è migliorato dell’1,5% del Pil nel 2013, nonostante il calo del pil, e il saldo fiscale generale è vicino al target.

Ce n’è abbastanza per alimentare una decina di talk show.

Anche perché tutto questo è stato reso possibile da “forti riforme”, che sono state insieme fiscali, finanziarie e del mercato dei prodotti e del lavoro.

Se volessimo raccontarla dal lato del pessimista, tuttavia, non mancherebbero gli argomenti.

Potremmo notare ad esempio che la disoccupazione, tuttora al 26%, è cambiata poco rispetto a un anno fa. La maggioranza dei disoccupati è senza lavoro da più di un anno. Parliamo di 3,5 milioni di persone, pari al 15% della forza lavoro, e “c’è il rischio di una permanente distruzione di skill professionali”. Inoltre “il mercato del lavoro rimane altamente frammentato, con una grande parte di lavoratori dipendenti collocata temporaneamente e non volontariamente su lavori part time”. Sicché la forza lavoro sta declinando notevolmente, “in parte tramite emigrazione netta”.

Tutto ciò ha avuto un chiaro impatto sulla società spagnola, dove “gli standard di vita sono caduti significativamente dall’inizio della crisi”. E non potrebbe essere diversamente, atteso che quattro milioni di persone che sono rimaste senza lavoro “hanno sofferto grandi perdite di ricchezza”. Anche a causa dei debiti che avevano sul groppone, aggiungo io.

La ricchezza mediana, infatti, è crollata, provocando di conseguenza una notevole crescita della disuguaglianza, misurata dall’indice di Gini, a fronte del fatto che comunque l’economia rimane pesantmente indebitata.

Il debito pubblico infatti, altro ex miracolo spagnolo, è in crescita costante, ormai vicino al 100% del Pil, e il deficit fiscale, malgrado i progressi, era ancora al 6,5% del Pil nel 2013.

Lato debito privato stanno pure peggio. Quello corporate è ben al di sopra della media storica e quella internazionale, mentre quello delle famiglie rimane vicino ai massimi storici. E sarebbe strano il contrario. La somma dei due quota il 200% del Pil, persino più alta degli inglesi.

“Come risultato – nota il Fmi – la Spagna è pesantemente indebitata con il resto del mondo”.

La Niip, ossia la posizione netta degli investimenti esteri, è addirittura peggiorata nel 2013 e ora sfiora il 100% del Pil, mentre nel 2007 era all’80. E, aggiungo io, le banche spagnole, fresche di salvataggio internazionale, sono notevolmente esposte verso i paesi emergenti dell’America Latina, e quindi sono assai vulnerabili a eventi esterni.

Anche qui, c’è da riempire un altro talk show.

Indeciso se guardare al bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto mi soffermo su un’altra glossa del FMI, laddove, notando il notevole miglioramento del saldo di conto corrente, passato da un deficiti del 10% nel 2007 a un surplus dell’1% nel 2013, osserva che a differenza della Corea del Sud, dove l’aggiustamento (dopo la crisi delle Tigri asiatiche) fu favorito da una corposa svalutazione valutaria, in Spagna il miglioramento del saldo è avvenuto senza una svalutazione nominale dei prezzi.

Vi dirò di più: il caso spagnolo è l’unico registrato fra le cronache di 276 episodi di paesi che hanno avuto deficit di conto corrente superiori al 10% fra il 1980 e il 2013 che abbia subito un aggiustamento senza deprezzamenti nominali.

Più o meno.

“In Spagna – scrive infatti il Fmi – il real effective exchange rate (REER) che si è deprezzato significativamente è quello basato sul costo unitario del lavoro (ULC/REER), riflettendo largamente la perdita di posti di lavoro”.

Traduco: i prezzi sono cambiati poco, ma svalutando il ULC/REER perché sono diminuiti i costi del lavoro, la Spagna ha guadagnato competitività e conquistato quote di export.

E allora vedo emergere dalla nebbia dei resoconti ufficiali e dalle favolette del mainstream il nuovo paradigma che, piaccia o no, sta orientando le scelte di politiche economiche dei paesi debitori: la Grande Redistribuzione.

Spostare quote di ricchezza dal lavoro al capitale. Processo storico ormai avviato da un trentennio, a dirla tutta, ma la crisi ormai lo ha eletto al rango di unica risposta possibile alla crisi a patto di non scegliere una secolare stagnazione.

Questo nuovo paradigma promette a popolazioni eternamente indebitate di continuare a vivere fingendo che tutto sia come prima, al prezzo di una vita lavorativa che sarà sempre più lunga, meno pagata e meno stabile. I creditori degli spagnoli continueranno a prestare i soldi alla poverissima Spagna, se e nella misura in cui rispetterà i suoi impegni internazionali, e la popolazione – o meglio la parte maggiore della popolazione – dovrà pagarne il prezzo.

Gli stati, dal canto loro, saranno troppo impegnati a pagare le loro obbligazioni per poter stendere reti di protezione. E anzi, dovranno pure fare gli sceriffi di Nottingham per saziare l’inesauribile fame dei creditori ed evitare la frusta dello spread.

Il retropensiero, neanche troppo celato di questo nuovo paradigma, è che i soldi è meglio concentrarli su chi già ne ha tanti. I ricchi sono bravi a gestirli.

I poveri no.

Scopri TheWalkingDebt il blog di Maurizio Sgroi


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