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Politica

La parabola della sinistra italiana

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La via italiana al socialismo

In questo clima di fermento totale, di sogni entusiasti, di sviluppi favorevoli per gli oppressi di tutto il mondo, il segretario del PCI Togliatti annuncia la “via italiana al socialismo”.

In Russia, in Cina e a Cuba, le classi dominanti furono deposte con metodi diversi e con stili rivoluzionari diversi.
Al contrario di quello che diceva Trostky sarebbe stato dunque possibile applicare il socialismo in un paese solo, ed eventualmente esportarlo, e ogni paese avrebbe dovuto trovare la propria “via”.

Ma la via proposta da Togliatti non è quella rivoluzionaria, è la via parlamentare.
Il PCI di Togliatti abbandona l’idea fondante del comunismo, la rivoluzione, per cercare di intrecciare compromessi con la borghesia parlamentare.

La “via italiana al socialismo” consisteva in una presenza convinta nelle istituzioni rappresentative, svestita ogni velleità rivoluzionaria, e al tempo stesso mirava ad accompagnare l’azione istituzionale con l’estensione delle lotte sociali e sindacali.
La via italiana al socialismo prevedeva una lunga marcia nelle istituzioni parlamentari per trasformarle progressivamente in senso socialista, conquistandole – ma pacificamente, con il consenso degli elettori.

Si trattava di una profonda modifica del leninismo, che suscitò molte resistenze nei paesi socialisti e anche in URSS.

Enrico Berlinguer

Figura importante della sinistra italiana fu senza dubbio Enrico Berlinguer, politico tutt’ora compianto e rimpianto da tanti “comunisti” italiani orfani di un leader.
Berlinguer rimase segretario del PCI fino al 1984, anno in cui morì.

Di Berlinguer ricordiamo un’enfasi sulla questione morale pressocché totalizzante – anche eccessiva, dal momento che rappresentò la fine della critica sociale/economica al capitalismo, e la sua sostanziale accettazione.

Le critiche al capitalismo non puntano più l’indice contro i rapporti di produzione, contro lo sfruttamento del lavoro salariato, contro il saggio di sfruttamento, contro il pluslavoro, le critiche si limitano alla facciata, non proponendo più veri modelli alternativi, ma la sostanziale accettazione del sistema provando ad ottenere qua e la sporadiche vittorie che saranno poi spazzate via negli anni a seguire (lo statuto dei lavoratori smontato poi da Monti-Fornero)

Ad avallare questa tesi ci sono l’accettazione dell’“ombrello NATO”, il compromesso storico e l’idea-proposta di un fumoso eurocomunismo.
Emblematica nel gennaio del 1982 una sua dichiarazione, dove definì esaurita la “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre, ponendo le premesse del rinnovamento che contraddistinse l’attività del PCI negli anni immediatamente precedenti alla crisi del comunismo.

Altra questione spinosa che vede coinvolto Berlinguer è la separazione della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, operata da Ciampi e Andreatta.
Il PCI non si oppose, anzi –come raccontato dal professor Galloni, testimone oculare dei fatti– avallò la scelta della separazione tra la BDI e il Tesoro.

Tale separazione ha origini teoriche che vengono da oltreoceano, dagli USA per essere precisi, dove andava affermandosi la scuola economica monetarista di Milton Friedman, che spiegava come l’inflazione a due cifre che stava investendo i paesi sviluppati fosse opera dei governi spendaccioni e più generalmente della quantità di moneta circolante.
Separando la banca centrale dal governo centrale e rendendola indipendente si sarebbe risolta la crisi inflattiva, applicando una stretta creditizia e l’aumento dei tassi d’interesse.
Lo Stato doveva essere privato del suo canale diretto di finanziamento e passare dai mercati, ritenuti migliori nell’allocare le risorse e il capitale.

La tesi di Friedman negli anni a venire si dimostrò inconsistente.
Fu dimostrato infatti che le impennate dei prezzi degli anni ’70 e ’80 furono dovute agli shock petroliferi, non a politiche economiche dissennate.

Perché un partito comunista non denunciasse tale sfacelo rimane tutt’ora un mistero.
All’interno del partito erano in atto dinamiche di trasformazione che partivano da lontano, e che scalpitavano per spodestare gli ultimi rimasugli anticapitalistici che ancora resistevano.

Di Berlinguer e del PCI possiamo anche ricordare la posizione ambigua rispetto allo SME (Sistema Monetario Europeo), nonostante il mirabile discorso di Napolitano alla camera che coglieva con grande anticipo sui tempi tante delle problematiche legate alla perdita della sovranità monetaria, e la conseguente limitazione rispetto alle politiche monetarie e fiscali.

Non più “comunisti”

Di lì a poco il PCI esplose, e nella famosa “svolta della Bolognina” decise di rimuovere l’aggettivo comunista dalla propria sigla. La svolta anticomunista era già nei fatti, e la Bolognina non fece altro che sancirla formalmente.

Il PCI divenne dunque PDS, Partito Democratico di Sinistra; senza una linea economica definita, orientato a un vago concetto di revisionismo, e caratterizzato da un progressivo allontanamento dalle masse – quello che invece dovrebbe essere, e fu, un tratto proprio dei partiti di sinistra.

Dal PDS ai DS il passo fu breve, nel frattempo vennero firmati trattati sovranazionali che svuotavano l’Italia della sua indipendenza parlamentare e della sua sovranità politica.

Il tutto –ovviamente– nel silenzio dei media.

L’italia firmò Maastricht, Lisbona ed entrò nell’Euro, il più grande strumento di attacco ai diritti delle classi subalterne degli ultimi 150 anni.

Le privatizzazioni e il mercato del lavoro

Il delfino di Berlinguer era Massimo D’Alema – l’uomo delle privatizzazioni, insieme a Prodi.

È curioso come in Italia le privatizzazioni e le liberalizzazioni più importanti vennero da partiti che si dichiaravano di sinistra, anziché provenire da partiti di destra.
È il caso dell’IRI, della Telecom, delle autostrade, della STET, dell’Istituto San Paolo, delle Poste Italiane e molti altri.

Superfluo ricordare al lettore le guerre intraprese in Jugoslavia, in spregio alla nostra Costituzione.

Oltre ai regali fiscali e alle privatizzazioni, i governi di “centro-sinistra” hanno portato in dono ai capitalisti la piena liberalizzazione e privatizzazione del “mercato del lavoro” all’insegna della famigerata “politica dei redditi”, del “patto sociale” e del supersfruttamento.

Il 24 settembre 1996 governo, confederazioni padronali e vertici sindacali siglano un “patto sul lavoro” – in continuità e superamento dell’accordo del 23 luglio 1993 di Amato, che cancellava la scala mobile e inaugurava la “politica dei redditi”.
Il “patto” di Prodi prevede flessibilità sul lavoro e sui salari, lavoro precario, “lavori socialmente utili”, “salario d’ingresso”, “contratti d’area”, contratti formazione-lavoro, lavoro in affitto (interinale), estensione dell’apprendistato a tutti i settori, stage, la privatizzazione del collocamento, sgravi fiscali e previdenziali alle aziende.

A distanza di pochi mesi, il 18 giugno ’97, viene approvata la legge Treu, con i voti del PRC.
Sulla base del “patto” questa legge sancisce la completa deregolamentazione del “mercato del lavoro” e la sua progressiva privatizzazione.

Nello stesso quadro il 1° ottobre 1998 viene approvato il decreto legislativo per l’istituzione dell’Agenzia “Sviluppo Italia”, che nella sostanza liberalizza e deregolamenta il “mercato del lavoro” al Sud.

Nel frattempo viene privatizzato il collocamento (decreto legislativo del 23.12.97 e decreto attuativo del 13.5.98).

Nel luglio ’98, in barba alla promessa sulla riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore, viene prorogato e peggiorato il regime degli straordinari attraverso un decreto governativo.

Il 28 novembre 1998 viene approvata la “riforma” dei “Lavoratori socialmente utili”.
Gli LSU vengono trasformati in strumenti attivi del “mercato del lavoro”, ossia viene istituzionalizzato il lavoro nero, precario e sottopagato.

Il 22 dicembre 1998 viene siglato un nuovo “patto sociale”, il cosiddetto “patto di Natale” fra governo D’Alema, associazioni padronali e sindacati – sempre all’insegna della flessibilità e del supersfruttamento.

La mannaia del governo si abbatte sul pubblico impiego, anche in virtù della controriforma federalista Bassanini della pubblica amministrazione.
Si inizia col blocco delle assunzioni e delle liquidazioni per sei mesi nel pubblico impiego, stabilito nella finanziaria ’97.
A seguire, il primo accordo governo-sindacati del 12.3.97 introduce la flessibilità selvaggia e le “gabbie salariali”.
I contratti della sanità e della scuola vengono chiusi in nome della privatizzazione del rapporto di lavoro.
Il 10 agosto 2000 viene firmato l’accordo governo-sindacati che introduce nel pubblico impiego persino il lavoro temporaneo e interinale.
Il 24 aprile 2000 viene approvato un decreto legislativo sullo status di disoccupato che costringe i disoccupati ad adattarsi totalmente alle leggi del mercato capitalistico.

Il diritto di sciopero

In una simile politica antioperaia e antisindacale non poteva mancare l’ennesimo attacco al diritto di sciopero, con l’approvazione definitiva il 4 aprile 2000 di una nuova legge antisciopero nei “servizi pubblici essenziali”, che peggiora quella fascista del 1990. Un’approvazione favorita dalla rinuncia all’ostruzionismo parlamentare da parte del PRC.

Il disprezzo del diritto di sciopero e dei diritti sindacali dei lavoratori era peraltro già stato palesato dal governo D’Alema, allorché fu siglato il patto con i padroni e il sindacato che cancellava di fatto il diritto di sciopero durante il giubileo, le precettazioni dei ferrovieri e del personale di volo, nonché il rifiuto di costituirsi in giudizio contro i referendum liberticidi, antioperai e antisindacali dei radicali (poi fortunatamente falliti).

Oggi

Il PD di Veltroni, D’Alema, Napolitano, Fassino, Bersani, Renzi non è diverso rispetto al passato, ne è la naturale prosecuzione.
Il fatto che il PCI berlingueriano abbia prodotto tale classe dirigente non può lasciare indifferenti.
Senza l’opportuno terreno fertile non sarebbero cresciute piante simili.

Del PD ricordiamo poche cose ma “buone”: le sconfitte in serie (è una cosa buona), l’appoggio al governo tecnocratico di Monti prima e di Letta poi, la riforma mortifera delle pensioni Fornero, l’altrettanto grottesca riforma del lavoro Monti e un continuo accettare qualunque suggerimento proveniente da Bruxelles.

A latere della storia stessa del PCI, definire il PD un partito “di sinistra” suona quantomeno grottesco.

Il PD è del tutto scollegato dal mercato del lavoro e dai lavoratori (gli operai votano 5 stelle o addirittura Lega Nord), è scollegato dalle masse, ed è lontano dalle esigenze delle categorie sociali più povere.

Si è perso di vista l’obiettivo, si è perso il significato di cosa voglia dire “di sinistra”.

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Di Fabio Di Lenola (Alza Il Pugno)


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