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OMICIDIO STRADALE E REATO DI TORTURA

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Vladimiro Zagrebelsky, sulla Stampa di oggi, scrive un articolo che reca il titolo: “Tortura, ci vuole una legge che la punisca”. Il contenuto – riguardante prevalentemente i fatti della Caserma Diaz ai tempi del G8 di Genova – non contraddice il titolo. E dunque si può affermare che l’illustre giurista è sorprendentemente a favore di questo tanto invocato reato, non diversamente da quanto avviene per il famoso “omicidio stradale”. E infatti si può partire proprio da quest’ultimo.

Quand’è che si invoca la sanzione di una nuova figura di reato? Quando la società chiede che si punisca un comportamento che non sia già punito dal codice penale. E l’idea di un “omicidio stradale” sorprende già per questo: perché come crimine un omicidio non è certo una novità. Può essere doloso o colposo, preterintenzionale o commesso con il consenso dell’ucciso, può avere aggravanti o attenuanti ma, si ripete, il fatto fondamentale rimane la morte di una persona non per cause naturali.

Nel caso dell’omicidio stradale va innanzi tutto notato che l’art.589 del Codice Penale – se qualcuno ha la pazienza di andare a rileggerlo – prevede già una forte aggravante nel caso il fatto sia commesso con violazione delle norme del Codice della Strada. Ciò significa che come crimine, con la detta aggravante,  questo tipo di omicidio esiste già. Se poi si teneva ad avere un articolo autonomo, intitolato “omicidio stradale”, si potrebbe allungare indefinitamente il codice con altri articoli dello stesso genere: “omicidio per motivi razziali”, “omicidio del coniuge”, “omicidio per compiere una rapina”, e via di seguito. Decine di articoli 575/1, 575/2, 575/3 del Codice Penale.

Se tutto ciò è chiaro, si può confermare la sorpresa per la posizione di Zagrebelski a favore del reato di tortura. Infatti la prima obiezione che sorge spontanea è che, in sé e per sé, questo reato non potrebbe esistere. Chiunque intenda torturare un altro, non può farlo che in occasione della commissione di uno dei reati che prevedono l’inflizione di una sofferenza o di un danno: rispettivamente percosse (art.581 C.p.), lesioni personali volontarie (art.582 C.p.) e, naturalmente, omicidio (art.575 C.p.). Ma allora, come sostiene il codice, i reati sono e rimangono quelli detti: percosse, lesioni, omicidio. La tortura è soltanto una loro modalità di esecuzione. Questa modalità merita certo una severa sanzione, ma non trasforma i reati in qualcosa di diverso. L’omicidio normale è previsto con una sanzione di anni ventuno di reclusione, ma con certe aggravanti (art.576) si passa all’ergastolo, che non è piccola differenza.

Venendo al problema della tortura, il Codice, fra le circostanze dell’art.61, prevede al riguardo una specifica aggravante, che per giunta ha portata generale e non si limita a quelle tre figure di reato. Ai sensi della quarta delle previste aggravanti, si legge infatti che fa aumentare di un terzo la pena inflitta “l’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone”. E nel caso ricorrano più aggravanti, la pena può aumentare anche di due terzi.

Tutto ciò non è privo d’importanza, per coloro che si preoccupano delle violenze della polizia. Infatti il Codice, al n.9 del detto articolo 61, prevede come aggravante: “l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio”. E non è difficile vedere quali sono le conseguenze di questo intreccio di norme. Si faccia l’ipotesi di un agente di polizia che, per far soffrire un arrestato, gli torca o gli percuota il braccio fino a romperglielo. La lesione è grave e la pena prevista va da tre a sette anni (art.582 C.p.). Ma poiché ricorrono anche (almeno) due aggravanti (crudeltà e qualità del reo, in quanto pubblico ufficiale), la pena andrà da tre anni, più due terzi di tre, cinque anni, a (sette più due terzi di sette) undici anni e otto mesi come massimo. Che cosa si vuole di più, che si butti la chiave?

Anche a volere questo assurdo, non sarebbe necessario creare il reato di tortura. Basterebbe scrivere soltanto, al posto del n.4 dell’art.61, che qualunque inflizione di una sofferenza fisica, anche un forte scappellotto del padre (abuso dei mezzi di correzione e di disciplina, art.570 C.p.) comporta l’ergastolo. Proposte che nessuna persona seria oserebbe mai avanzare.

Sembra strano che sui giornali si debbano fare questi discorsi. Essi potrebbero essere utili soltanto ad uno studente di legge, in vista dell’esame di diritto penale. Ma per il resto, sono semplici chiacchiere. Si può avere rispetto per l’emotività degli incompetenti, ai quali si può esprimere solidarietà per le eventuali sofferenze inflitte a loro o ai loro cari: ma ciò non autorizza a scambiarli per legislatori.

Gianni Pardo, [email protected]

8 aprile 2015

 


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