Attualità
OMBRE SUL BOSFORO di Alessandro Barca
Se qualcuno sulle due sponde dell’Atlantico si era illuso che Ankara potesse essere la chiave per sciogliere il groviglio siriano, forse in questi giorni si sta pentendo amaramente. La Turchia, in realtà, sta diventando sempre più parte del problema che della soluzione. Mancano ormai meno di due settimane alle elezioni e c’è già che preconizza ulteriori tornate se i numeri non saranno quelli voluti dall’AKP . L’obiettivo di Erdogan e del suo partito è quello di sempre: ottenere in Parlamento la maggioranza necessaria a cambiare la Costituzione e istituire un regime presidenziale (o semi-presidenziale). Dopo le bombe alla Stazione di Ankara, però, molti iniziano a chiedersi fin dove il “Sultano” sia disposto a spingersi per coronare il suo sogno e – soprattutto – fino a che punto Europa e Stati Uniti potranno continuare a ignorare la deriva autoritaria in cui sta scivolando la Turchia. La strategia della tensione rilanciata dalla strage alla Stazione (che agli italiani ricorda dolorosamente quella di Bologna) gli arresti politici, il pugno di ferro sui media ostili al Governo riusciranno a stroncare i fermenti dell’opposizione o allontaneranno ancora di più dal regime un’opinione pubblica già molto scettica sull’”islamismo moderato” di Erdogan? Anche tra i fedelissimi del Presidente – si dice ad Ankara – comincia a serpeggiare qualche dubbio e, seppur molto riservatamente, c’è chi diffonde la voce che la colpa del crescendo di pressioni sugli oppositori e sui curdi sia tutta dei militari. Secondo queste voci, l’esercito avrebbe trovato nuovi stimoli nella campagna anti – ISIS e starebbe cercando di recuperare il lustro perduto e il tradizionale ruolo di garante dell’unità nazionale. Una tendenza che il “Sultano”, in questi tempi contrastati, sarebbe costretto ad assecondare per blindare l’appoggio delle forze armate al Governo.
Sul fronte esterno, sembra lontano il tempo in cui la Turchia veniva additata a modello per quelle che – si sperava – sarebbero state le nuove democrazie arabe. Seppur in modo confuso e velleitario, la politica “neo-ottomana” avviata da Erdogan e dal fedele Davutoglu sta diventando sempre più spregiudicata, al punto di mettere qualche volta in imbarazzo gli stessi alleati occidentali di Ankara, che non potranno fingere ancora a lungo che il problema dei migranti o quello dei curdi siano episodi isolati e non gli strumenti di un unico disegno.
Priva di una politica estera comune, l’Unione Europea come sempre traccheggia, oscillando tra l’”appeasement” verso Ankara e le dichiarazioni di principio sul rispetto dei diritti politici e umani. Quanto agli Stati Uniti, il rischio di perdere un pezzo importante della NATO proprio nel momento in cui la Russia cerca, in un solo colpo, di ristabilire la sua sfera di influenza sulle Repubbliche Centro-asiatiche e di ricavarsi un ruolo di rilievo nello scacchiere medio- orientale, li spinge a chiudere spesso tutti e due gli occhi sulle intemperanze del “Sultano”. Magari sperando sotto sotto che – come è avvenuto in Egitto – dalle elezioni di novembre Erdogan emerga nettamente vincitore e l’Occidente possa disporre di un nuovo “baluardo” contro l’estremismo islamico (verso il quale, per la verità, Ankara ha mantenuto finora un atteggiamento molto ambiguo) e, chissà, anche contro l’espansionismo russo.
Sfortunatamente sembra improbabile, a questo punto, che anche in caso di una vittoria di Erdogan la situazione in Turchia sia destinata a stabilizzarsi nel breve periodo. Lo stesso Governo, del resto, si muove contraddittoriamente su diversi versanti. Mentre martella di bombe le postazioni curde in Siria, mantiene aperti ampi canali di comunicazione con i “turchi orientali” attestati in Irak, da cui dipende la continuità delle forniture di petrolio irakeno di cui Ankara ha disperatamente bisogno. Soprattutto ora che la crisi di Governo ha rimesso in forse i contratti miliardari con la Russia per il nuovo oleodotto sotto il Mar Nero “Turkish Stream” e l’assertività russa in Siria ha spinto Erdogan a mettere in discussione anche il flusso di gas proveniente da Mosca, che pure rappresenta il 60 per cento delle importazioni turche.
E l’Unione Europea? L’inarrestabile ondata dei “dannati della terra” che si è scatenata dopo che Ankara ha allentato i freni ha avuto, se non altro, il merito di risvegliare la Germania e tutto il Nord Europa dal torpore nei confronti dell’imbroglio siriano. Ma, se si eccettuano le periodiche iniziative bellicose di Francia e Gran Bretagna, siamo ancora ben lontani da una vera strategia europea per il Medio Oriente. In questo marasma, aggravato dalla vaghezza di un’America ormai già troppo assorbita dalla campagna presidenziale per essere in grado di elaborare una visione che finora le è mancata, forse una volta tanto le parole di un falco come l’ex-Presidente Sarkozy che proclamava:”Per quanto ne so, la Turchia è in Asia e non in Europa” suonano meno provocatorie di quanto non fossero qualche anno fa. Un avvertimento purtroppo realistico a riflettere bene sulle prospettive dei negoziati per l’adesione ancora in corso. Almeno fino a quando Ankara non avrà deciso cosa fare da grande : se restare sulla sponda ottomana o muoversi sul serio verso quella europea.
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