Attualità
Oltre Santa Sofia c’è di più. Le mire di Erdogan e le colpe gravi dell’Europa (di Amerigo Mascarucci)
La vicenda di Santa Sofia rappresenta senza dubbio una ferita profonda per la cristianità, una sorta di seconda “caduta d Costantinopoli” ad opera del nuovo “sultano” turco- ottomano Recep Erdogan. Ma sarebbe sbagliato inquadrare la questione in un’ottica puramente religiosa, quasi uno scontro di civiltà. Ci sono dietro questa vicenda, che è soltanto l’ultima ciliegina sulla torta di una politica islamista rivolta a sviare l’attenzione dai gravi problemi economici del Paese usando l’integralismo religioso come arma di ricompattamento dell’opinione pubblica, delle gravissime responsabilità politiche. Responsabilità che ancora una volta chiamano in causa soprattutto l’Unione europea.
Quell’Europa che, dopo aver fallito il progetto di includere la Turchia, ha permesso la forte legittimazione di Erdogan sul piano internazionale. Fino a minimizzare, o peggio ignorare, i reiterati tentativi dell’ex premier e presidente di riportare la Turchia ad essere un Paese islamico. Il tutto mentre lo stesso veniva “coccolato” dai Paesi europei come leader moderato, un vero campione di democrazia, capace di integrare Islam e laicità (parole di Emma Bonino, ma anche di Silvio Berlusconi che si era illuso di essere lui il regista dell’ingresso dei turchi nella Ue).
E mentre l’Europa guardava ad Erdogan come ad un prezioso alleato, che per entrare in Europa aveva abolito la pena di morte e si mostrava disponibile a risolvere la questione cipriota, i paesi islamici (i musulmani si conoscono bene fra loro) guardavano con grande preoccupazioni le mosse di Ankara; rivolte all’esterno a conservare l’immagine di Paese moderno, occidentale, filo europeista, e all’interno a consolidare il potere dei Fratelli musulmani con il tentativo, osservato con molta diffidenza dall’Arabia Saudita, di un asse privilegiato con l’Iran sciita.
Da qui lo scontro con l’esercito, storico custode dello Stato laico secondo i dettami della costituzione voluta da Kemal Ataturk, il padre della Turchia occidentale, che ha visto decapitare il proprio stato maggiore. E mentre da parte dei Paesi arabi un colpo di stato veniva largamente auspicato, l’Occidente, Stati Uniti ed Europa, si muovevano in direzione diametralmente opposta, scoraggiando l’opzione militare giudicata pericolosa e antidemocratica e in pratica rafforzando il potere di Erdogan; che rimasto in sella di fronte ad un esercito sempre più indebolito e guardato quasi come un elemento di destabilizzazione dalla Comunità internazionale, ha avuto buon gioco a completare il suo disegno, spuntando le armi all’unica istituzione laica che poteva davvero bloccare la sua ascesa.
La svolta c’è stata nel 2011, con l’esplodere delle cosiddette primavere arabe che, tanto per cambiare, l’Occidente e l’America della premiata ditta Obama-Clinton hanno appoggiato senza capire nulla di ciò che stava realmente accadendo. E’ stato a quel punto che Erdogan, di fronte ad un’Europa incapace di deciderete sull’adesione, bloccata al proprio interno fra favorevoli e contrari e da nodi insuperabili come la questione di Cipro e il riconoscimento del genocidio armeno da parte di Ankara, ha spostato le proprie mire sul Medio Oriente, con l’obiettivo di ritagliarsi un ruolo geopolitico sempre più predominante nel mondo islamico, in aperta competizione con Arabia Saudita e Iran. Una sorta di nuovo impero ottomano.
Il primo tassello del disegno è stato quello di “annettere” l’Egitto dove, dopo la caduta di Mubarak alleato storico dei sauditi e la vittoria alle prime elezioni libere dei Fratelli musulmani, Erdogan ha tentato di assumere il controllo del Canale di Suez, fino a quel momento interdetto alle navi iraniane, per negoziare direttamente con Teheran i termini della riapertura. Progetto vanificato però dall’intervento dell’Arabia Saudita che ha organizzato e finanziato il golpe militare del generale Al-Sisi che ha messo al bando i Fratelli Musulmani e ricondotto l’Egitto nell’orbita di Ryad attraverso una nuova dittatura. E non è un caso se oggi i rapporti fra Ankara e Il Cairo hanno toccato il minimo storico.
Altro campo d’interesse della Turchia neo-ottomana è stata la Siria, dove Erdogan è diventato il principale sostenitore e finanziatore della resistenza anti-Assad, fornendo supporto militare ai ribelli sunniti, e diventando anche uno dei principali alleati del Califfato islamico (Isis); incontrando in questo scenario l’opposizione degli alleati storici del regime Baath, Russia e Iran.
Ultimo campo d’azione la Libia, dove Erdogan è sceso militarmente in campo per sostenere il governo del fratello musulmano Al Serraj ed impedire che il Paese possa finire nelle mani del generale filo-russo Haftar, diventando a tutti gli effetti il principale attore dello scenario libico. Ed è ormai noto a tutti il legame fra Ankara e i principali gruppi terroristi islamici, non soltanto l’Isis ma anche i movimenti della Jihad islamica che operano nei vari contesti (compresi i sequestratori di Silvia Romano liberata proprio grazie ai servizi segreti turchi) e Hamas in Palestina.
E l’Europa? Oggi è finita sotto il ricatto della Turchia che dopo aver incassato i miliardi della Ue per fermare l’immigrazione, minaccia sistematicamente di aprire le frontiere con la Grecia. E’ avvenuto così nei mesi scorsi, quando di fronte ai massacri dei curdi siriani nelle zone di confine, gli stessi che hanno contribuito a sconfiggere l’Isis nelle città della Siria in precedenza occupate, i Paesi europei hanno osato alzare la voce. Sono stati redarguiti con annesso ricatto legato all’invasione dei profughi. Per non parlare poi del ruolo giocato all’interno della Nato che Ankara utilizza sempre ed unicamente a proprio vantaggio, anche qui esercitando uno spregiudicato potere di ricatto nei confronti dell’Occidente.
Un’Europa che oggi assiste quasi impassibile di fronte al braccio di ferro fra Turchia e Russia sulla Libia, lasciando che siano attori extra Ue a decidere i destini del Paese con la forza delle armi prima ancora che con la diplomazia delle chiacchiere.
Quella Russia che ormai, di fronte ad un’Europa che ha ufficialmente ripudiato le proprie radici cristiane abbracciando la logica del globalismo planetario, è oggi l’ultimo grande baluardo di difesa della cristianità di fronte all’assalto di un nuovo sultanato ottomano.
E Cipro? Qui c’è in ballo la partita del gasdotto EastMed realizzato e gestito da Grecia, Repubblica di Cipro, Israele ed Egitto. Ankara ha deciso di mettere in campo un progetto alternativo con un gasdotto da costruire entro il 2025 fra Turchia e repubblica turco-cipriota che governa la parte settentrionale dell’Isola e che non è riconosciuta dalla Comunità internazionale (proprio il niet dei turchi a smantellare il proprio governo cipriota favorendo la riunificazione del Paese con il versante greco è stato il principale ostacolo ai negoziati europei). Erdogan in questo caso punterebbe ad offrire all’Europa un petrolio a prezzi più vantaggiosi rispetto a quello dei concorrenti e il suo intervento in Libia è strettamente collegato anche a questo progetto. Infatti la Turchia ha firmato un accordo per la limitazione delle rispettive zone di esclusività commerciale con il governo di Tripoli, proprio laddove EastMed dovrà passare, creando un serio ostacolo allo sviluppo dell’infrastruttura. Il progetto turco-cipriota prevederebbe una condotta sottomarina di lunghezza ridotta rispetto a quella greco- israeliana (80 chilometri contro 1900) ad una profondità minima, fatto questo che consentirebbe una riduzione dei costi di realizzazione e gestione dell’opera e di conseguenza una tariffa più bassa per il mercato europeo. Il tutto per non restare tagliato fuori dallo sfruttamento delle risorse fossili mediterranee.
Ecco perché oltre Santa Sofia c’è di più. C’è la volontà di Erdogan di imitare Putin e restare al potere il più a lungo possibile. E se Parigi val bene una messa, Ankara val bene una moschea. Pensare di fermare oggi il sultano è un po’ come pensare di chiudere una stalla con i buoi già in fuga. E piangere su Santa Sofia è piangere lacrime di coccodrillo. Ad maiora.
Di Americo Mascarucci
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