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OGGI LA DECISIONE DELLA FED: CAPIRE I TASSI USA (di Luca Di Marco)

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da http://www.marcozanni.eu/

Il vicepresidente della Federal Reserve, Stanley Fischer, nel suo discorso pronunciato alla fine di agosto a Jackson Hole, aveva dato numerosi indizi che lasciavano intendere un rialzo graduale dei tassi già a partire dal 17 Settembre. Così, dopo quasi 10 anni, poteva apparire imminente l’inizio della fine dall’era dei tassi zero, almeno negli Stati Uniti. I potenziali ostacoli, da Jackson Hole ad oggi, sono stati essenzialmente tre: l’aggravarsi della crisi cinese e delle condizioni dei mercati emergenti, l’attesa sui dati occupazionali USA di settembre e le pressioni internazionali.  Ma se la crisi cinese sembra, per ora, sotto controllo, tutte le altre previsioni sono diventate realtà. Proprio pochi giorni fa è arrivata la notizia del declassamento dei titoli brasiliani a “junk” da parte di S&P. I dati del 4 settembre sono stati positivi ma pur sempre al di sotto le aspettative: 173 mila posti di lavoro contro i 220 mila attesi. Nel frattempo le pressioni internazionali si stanno facendo sentire. Direttamente o indirettamente, BCE, FMI, Banca Mondiale e molti economisti indipendenti stanno cercando di persuadere la FED a posticipare il rialzo a Dicembre o nel primo trimestre del 2016.

Si badi bene, non possiamo parlare di una situazione improvvisata. La FED, dal punto di vista comunicativo, si è mossa in modo ottimale e il processo di normalizzazione della politica monetaria risale all’annuncio di “tapering” (riduzione degli stimoli monetari) avvenuto nel dicembre 2013.

L’unica certezza è l’entità di un eventuale rialzo che non eccederà i 25 punti base. La Fed, attualmente, applica una gamma di interesse compresa tra 0-0,25%.

Il clima è rovente. E non solo per l’importanza della decisione da prendere. Il silenzioso scontro interno che si sta consumando nei palazzi americani non lascia trapelare indizi.

Fra le questioni più dibattute, il trend inflazionistico, la disoccupazione, la stabilità finanziaria, la valuta e le conseguenze globali.

 

INFLAZIONE

L’inflazione forse è il motivo più forte per ritardare il rialzo. A tal proposito anche Krugman, in uno dei suoi editoriali sul New York Times ha scoraggiato l’innalzamento dei tassi. Il target ufficiale della Fed del 2% è ben lontano dalle attuali stime e il trend inflazionistico sembra andare a rilento.  E faremo a meno di lanciarci nel dibattito infinito sulle cause del ribasso delle materie prime e le conseguenze sulle stime. Meglio faremmo a considerare, invece, l’indice della spesa al consumo personale (PCE) su base annua. L’indicatore preferito della FED, (che esclude energia e beni alimentari) si attesta intorno al +1,2%.  Questo dato non sembra sufficiente per giustificare un rialzo, nonostante l’incremento del 3,5% degli affitti rispetto all’anno passato.

 

DISOCCUPAZIONE

I dati sulla disoccupazione sono i più incoraggianti in termini assoluti: 5,1% cioè il minimo dall’aprile 2008. Le dinamiche occupazionali, però, non sono tutte “rose e fiori” come Stiglitz sottolinea su Project Syndicate. Se consideriamo i dipendenti part-time in cerca di un posto di lavoro a tempo pieno e i lavoratori marginalmente impiegati, il tasso di disoccupazione per gli Stati Uniti, nel suo complesso, sale al 10,3%. Stiglitz si sofferma anche sui salari reali dei “non-supervisory workers” che solo quest’anno sono scesi dello 0,5%.

 

STABILITÀ FINANZIARIA

La Fed ha tra i suoi obiettivi il mantenimento della stabilità finanziaria. La volatilità delle ultime settimane sul mercato azionario è aumentata significativamente, ma rimane ancora bassa rispetto agli standard storici. Il mantenimento dei tassi a questo livello potrebbe favorire nel lungo periodo la distorsione delle decisioni d’investimento che potrebbe causare bolle sui titoli, in quanto gli investitori tendono a spostarsi su titoli a maggior tasso di remunerazione e quindi con maggior rischio.

 

VALUTA E CONSEGUENZE GLOBALI

È indubbio che l’innalzamento dei tassi porterà ad un apprezzamento del dollaro che si è già molto rinforzato nell’ultimo periodo. Il biglietto verde troppo forte è senz’altro uno degli ostacoli più difficili da superare tanto dal punto di vista globale, quanto se lo si osserva dalla prospettiva statunitense.

Un apprezzamento del dollaro porterebbe ad un deterioramento delle partite correnti statunitensi frenando la lenta ripresa dell’export americano. Un rischio che gli Stati Uniti vorrebbero evitare, date le possibili conseguenze: il calo del prezzo del petrolio,  l’apprezzamento del dollaro porterebbe gli Usa ad importare deflazione costringendo probabilmente la FED a una brusca retromarcia.  Un ulteriore elemento lo ritroviamo nel reparto shale oil che ha approfittato di questo periodo per indebitarsi a basso costo: un ulteriore abbassamento del prezzo del petrolio con i rimborsi dei debiti alle porte potrebbe configurare un brutto scenario.

Un terremoto è previsto sui Paesi Emergenti, che complessivamente hanno contratto debiti per un importo pari a 2400 miliardi di dollari. In questo scenario, la posizione del Brasile sembra essere la più critica anche alla luce del recente declassamento e della tendenza delle maggiori società carioca ad accumulare debiti in valuta statunitense. Basti pensare al colosso Petrobas, che su un debito complessivo di 140 miliardi di dollari ne ha contratto il 55% in valuta americana. India, Sudafrica e Turchia sembrano calcare le orme del Brasile. Non se la passano meglio Sudest asiatico e gran parte del corno d’Africa. Persino in Arabia Saudita il 65% del debito delle imprese è in dollari.  Un rialzo dei tassi farebbe diventare insostenibile il rimborso. Una grossa bolla che, una volta scoppiata, rallenterebbe la crescita mondiale per molti anni.

I Paesi emergenti sono in difficoltà da quando il costo di alcune commodities (petrolio soprattutto) è crollato.  Il peggioramento delle partite correnti, la fuga di capitali e il deprezzamento della valuta in caduta libera. E a poco o nulla sono valse le misure intraprese dalle banche centrali che hanno bruciato centinaia di miliardi di riserve.

Come oggi ha riportato Il Sole 24 Ore, la Jubilee Debt Campaign ha analizzato i Paesi che si trovano con un grosso deficit di partite correnti, valuta in deprezzamento e un debito pubblico elevato nella maggior parte in dollari: Bhutan, Capo Verde, Dominica, Etiopia, Ghana, Laos, Mauritania, Mongolia, Mozambico, Samoa, Sao Tomé e Principe, Senegal, Tanzania e Uganda sono i primi paesi che rischiano il collasso.

 

COSA SUCCEDERÀ

Considerando tutti questi elementi, non credo che oggi la Federal Reserve prenderà la decisione di innalzare i tassi o almeno non credo che alzerà di 0,25% tutti i due estremi del corridoio quindi arrivando a 0,25%-0,50%. Un’idea che potrebbe trovare consensi, in quanto permetterebbe di testare la reazione globale ma nello stesso mantenere i tassi zero, è la possibilità di alzare solamente l’estremo superiore a 0,50% impostando i tassi nel corridoio 0-0,50%. Per ultimo ma non per questo meno importante, bisognerà capire quale sarà la tabella di marcia e il target dei successivi rialzi. I rischi sono ancora tanti nonostante la ripresa americana.

 

Luca Di Marco

Collaboratore parlamento UE

[email protected]


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