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Note sulla Costituzione. L’UGUAGLIANZA

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L’art.3 è uno dei più importanti: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Dai tempi della Rivoluzione francese, il principio dell’uguaglianza è divenuto imprescindibile, nei Paesi democratici. Purtroppo, quando si passa dall’enunciazione teorica alla realizzazione pratica, quest’ultima non va esente da gravi problemi. Dunque l’art.3 della Costituzione va applicato cum grano salis. Il buon senso non vuole che si conceda il voto politico ai ragazzini di dieci anni soltanto perché cittadini italiani come gli altri, tanto che sarebbe anticostituzionale discriminarli per età. Non si può pagare nello stesso modo il grande chirurgo e l’ultimo degli infermieri solo perché ambedue curano malati. Non si può pretendere che lo stratega di superiore competenza, in quanto militare come gli altri, vada all’assalto all’arma bianca insieme con i coscritti: infatti il Paese ricava una maggiore utilità dalla sua competenza che dalla sua morte. Viceversa è giusto che un capufficio donna guadagni quanto un capufficio uomo ed è giusto che, per l’omicidio, si applichi la stessa pena al bracciante e al miliardario.

L’uguaglianza dunque deve valere per tutti i cittadini nelle medesime condizioni. E dal momento che il Presidente della Repubblica è l’unico nella sua condizione, è comprensibile che sia trattato diversamente persino in materia di diritto penale (art.90).

Il problema si riduce dunque all’identificazione “delle medesime categorie di condizioni”. E questa è un’operazione eminentemente politica.

Se si mette da parte un’irrealistica uguaglianza, è facile vedere che i ministri, i Presidenti delle Camere e gli stessi parlamentari non hanno, per la vita della repubblica, la stessa importanza degli altri cittadini. Essi non si limitano a votare una volta ogni cinque anni e per il funzionamento dello Stato: al contrario sono essenziali in ogni giorno della legislatura. Per questo vanno specialmente protetti, in particolare da accuse strumentali di uno degli altri poteri (il giudiziario). E infatti a questo provvedeva l’immunità parlamentare (art.68) come era formulata prima del 1993. Ma poi ha prevalso la demagogia egalitaria.

Né meno preoccupante del primo comma è il secondo comma. Una volta che il sacro principio dell’uguaglianza si incarni nella “rimozione degli ostacoli” alla sua concreta attuazione, ciò può significare il sequestro di ogni bene ai Kulaki e all’occasione il loro massacro. L’operazione staliniana infatti tendeva all’“uguaglianza dei cittadini” e non tutti erano proprietari terrieri. Ecco perché bisogna temere le norme dal contenuto ideologico. L’Italia non ha massacrato i suoi Kulaki  ma nel ’68 ha avuto gente che protestava contro la bocciatura negli esami universitari, sostenendo che era una discriminazione. L’uguaglianza dei cittadini richiedeva che si desse il 18 politico a tutti, magari con un esame di gruppo in cui parlava l’unico che aveva studiato.

Quando le norme sono vaghe ed elastiche a determinate categorie si possono attribuire più o meno diritti che alle altre. Un Parlamento maschilista potrebbe decretare che le donne, a causa della loro intrinseca debolezza, siano meno produttive degli uomini, sul lavoro, e dunque debbano essere pagate di meno; mentre un altro Parlamento, femminista, potrebbe decretare che le donne siano pagate di più perché a casa lavorano più dei loro mariti. L’art.3 non è univoco. Dopo che l’art.68 è stato modificato, la Consulta, pur di negare ai ministri uno scudo contro l’invadenza della magistratura (lodo Alfano, lodo Schifani), li ha ripetutamente dichiarati cittadini come gli altri. Per giunta con motivazioni sempre nuove, facendo pensare al proverbio per cui “chi vuole annegare il suo cane dice che è appestato”.

L’interpretazione dei grandi principi è sempre un atto politico e la Consulta è un organo composto di nominati che ha il potere di annullare la volontà dell’organo elettivo che esprime la sovranità del popolo: il Parlamento.

Ecco un ultimo esempio. La Consulta ha dichiarato incostituzionale che il PM non possa ricorrere contro la sentenza d’assoluzione, dimenticando che ogni cittadino deve essere condannato solo quando la sua colpa è certa; mentre il fatto che un giudice lo abbia assolto, se non prova la sua innocenza, prova almeno che qualche dubbio sulla colpevolezza ci sia. Ma la Corte Costituzionale aveva una sua idea (politica) al riguardo, e ad essa ha dato ascolto.

I grandi principi sono tanto nobili quanto pericolosi.

Gianni Pardo, [email protected]

 


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