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Non inceneriamo il referendum. L’affaire delle royalties (di Ilaria Bifarini)

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Sull’esito referendario e lo pseudo scenario di vincitori e vinti – da una parte il calderone degli astenuti, che comprende vacanzieri della domenica, disinteressati, pro renziani, e attendisti dell’ultima ora; dall’altra coloro che hanno fatto l’abnorme sforzo di informarsi, laddove l’informazione era alquanto scarsa e faziosa – discettare è alquanto improduttivo e ozioso.

È invece importante riflettere su quanto si è riusciti a portare all’attenzione dell’opinione pubblica: il garantismo dello Stato nei confronti delle società petrolifere.

Primi incontrastati per quanto riguarda la tassazione nei confronti dei cittadini e delle imprese (dati Eurostat e World Bank a iosa) siamo invece i più indulgenti verso le società che si occupano della produzione e della commercializzazione dell’oro nero. Il sistema di royalties e di franchigie delle compagnie petrolifere applicato in Italia è tra i più favorevoli al mondo. Le royalties, ossia la percentuale degli incassi da versare sul valore di vendita delle quantità prodotte, in Italia si attesta sul 10% per la ricerca su terra, mentre in mare scende al 7% per il gas e al 4% per il petrolio. Se il prezzo del barile che scende calano anche i tributi da versare per le compagnie.

Per avere un’idea della nostra collocazione in ambito internazionale, basti considerare che in Alaska le royalties sono del 60%, del 50% in Canada e, rimanendo intracontinente, in Norvegia sfiorano l’80%, mentre nel Regno Unito vanno dal 68% all’82 %. E anche nei Paesi che, per quantità di produzione di idrocarburi, sono paragonabili all’Italia, come Irlanda e Francia, le royalties (o tributi) arrivano al 50 per cento. Un “virtuosismo” del tutto inedito in un Paese ad alta tassazione come il nostro.

C’è realmente un indotto legato all’industria petrolifera italiana tale da riservare ad essa un trattamento così garantista e tutelato?

La Basilicata, dove si estrae l’80% del petrolio nazionale, resta una delle regioni più povere d’Europa. Secondo le stime di Italia Nostra nel 2011 ha incassato dalle royalties meno di 140 milioni di euro, per lo più finiti in spese clientelari, senza nessun effetto redistributivo nel territorio e nessun investimento nelle politiche giovanili (il cui livello di disoccupazione supera drammaticamente il 40%). Nonostante il proclama demagogo post referendario sul salvataggio di 11 mila posti di lavoro, è evidente e di facile intuizione come l’industria petrolifera sia un settore ad alta intensità di capitale e bassa intensità di lavoro umano. La maggior parte dell’utilizzo delle risorse umane avviene durante la fase iniziale di installazione, così come analogamente lo richiederebbe quella di disinstallazione.

Chi sono allora i veri beneficiari di queste agevolazioni?

Se guardiamo la proprietà dei 92 impianti che rischiavano di non vedere il rinnovo delle loro licenze nel caso di un SI referendario, 76 di questi hanno come azionista di maggioranza l’ENI; i restanti 15 appartengono alla compagnia francese Edison e uno all’inglese Rockhopper.

Quali sono gli introiti per il Paese legati al gettito delle royalties?

Nel 2015 tutte le estrazioni, sia su mare che in terra, hanno prodotto un gettito pari a 352 milioni. Se l’Italia portasse le sue royalties in linea con quelle internazionali, considerando una media al ribasso, diciamo al 50%, il gettito lieviterebbe a 1,4 miliardi, cifra di certo più appetibile per le disastrate casse dello Stato. Nel 2013 in Sicilia, il M5S riuscì a far passare la proposta di alzare le royalties nella regione dal 10% al 20%. Le forti contestazioni e pressioni da parte delle società petrolifere ebbero la meglio e riportarono la percentuale dal 20% al 13%.

Non disperdiamo lo sforzo fatto da chi si è fatto portavoce della questione delle lobby petrolifere ed è riuscito a sensibilizzare una fetta importante del Paese, nonostante la difficoltà dell’argomento trattato e la carente informazione dei media, scarsa nella qualità e nei contenuti.


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