Attualità
Non dire “genocidio” per non offendere chi lo compie

La scena agghiacciante dell’esodo dei palestinesi da Gaza City lo è forse meno del loro ritorno. Perché essi non ritornano “a casa”. Riprendono “possesso” di una casa che non esiste più. Eppure lo fanno. Preferiscono rientrare in un non-luogo fatto di macerie piuttosto che andare a vivere da qualsiasi altra parte all’ombra di un tetto foresto. Ma non è ovviamente l’atavico richiamo del loco natìo che qui va sottolineato, quanto la scandalosa enormità dello scempio compiuto da un esercito regolare armato fino ai denti nei confronti di una popolazione civile per la stragrande maggioranza inerme e inerte. Perché questo è, questo è stato. E sorprendono le pelose discriminazioni lessicali dei difensori a oltranza del “legittimo” diritto di Israele a “difendersi”. I quali non vogliono sentir parlare di “genocidio” perché ciò offenderebbe l’etichetta di un certo (politicamente) corretto modo di esprimersi quando si discorre di geopolitica.
Ora – posto che, ad oggi, il numero di morti stimato nella Striscia è di sessantacinquemila, mentre i feriti ammontano a circa centosessantacinquemila (da ottobre 2023); posto che il genocidio (definizione ONU) si concreta negli «atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso»; posto che il rapporto del 16 settembre 2025 della Commissione indipendente di inchiesta delle Nazioni Unite (COI) denuncia il maltrattamento e la tortura di oltre 4.500 prigionieri palestinesi in custodia israeliana, nonché violenze sessuali e di genere perpetrate contro i detenuti oltre alla distruzione sistematica delle strutture di maternità, un incremento del 300% degli aborti spontanei dal 7 ottobre 2023 e attacchi alla principale clinica di fertilità di Gaza, che ha portato alla distruzione di circa 4.000 embrioni”; posto che sono agli atti le seguenti indimenticabili dichiarazioni: «Li ridurremo in macerie… andatevene ora perché opereremo con forza ovunque» (Netanyahu, 7 ottobre 2023), oppure: «È un’intera nazione laggiù ad essere responsabile… Non è affatto vero che i civili non fossero coinvolti» (Isaac Herzog, 13 ottobre 2023) o ancora: «Polverizzeremo ogni maledetta porzione di terra… la distruggeremo e la sua memoria… fino a quando non sarà annientata» (Brigadiere Generale David Bar Khalifa) – posto tutto questo, in che senso e in che modo, esattamente, l’operato di Israele sulla popolazione di Gaza “non” sarebbe un genocidio? Qual è l’esimio accademico della crusca il quale riuscirebbe, con gli arzigogoli di un sofista della Grecia antica, a dimostrare il contrario?
E poi: il diritto a difendersi di Netanyahu e dei suoi accoliti sarebbe “legittimo” e “giusto” rispetto a quale canone di legalità e giustizia? Dicono che tutto avrebbe origine nell’ignobile aggressione di Hamas del 7 ottobre di due anni fa. Nessuno dei difensori a oltranza (del diritto politico alla legittima difesa di Israele) che si chieda se “tutto” – oltre ad aver avuto origine in quella funesta data – è anche “giustificato” dalla medesima. E forse non se lo chiedono anche, se non soprattutto, perché conoscono la risposta. Dunque, alla sostanziale proditorietà di una reazione incommensurabilmente sproporzionata si aggiunge la ipocrisia di una “spiegazione” ipocrita, bizantina e pelosa. Perchè il responso della politica, dell’etica, della razionalità è uno solo: non c’è niente, neanche uno iota, che dia il diritto o avalli il potere di una Nazione di sterminare (per fame o col piombo) una popolazione tutta intera (per quanto in reazione all’attacco di un gruppo di terroristi) oltre che di fare terra bruciata delle sue case. Salvo non si ritenga che le vite degli appartenenti a quella Nazione non “valgano” assai di più di quelle di tutti gli altri. E, in effetti, ci sono libri sacri – non solo dalle parti della mezza luna islamica – che avallano, eccome, questa sorta di mostruoso alibi.
Solo in questo senso, forse, trovano un qualche fondamento gli sforzi dei giustificazionisti nel comprendere le (e nell’empatizzare con) le “ragioni” dell’IDF. Da quella prospettiva distorta, e per certi versi genuinamente “razzista”, l’abnormità delle strage in corso – sotto gli occhi attoniti e davanti alle braccia conserte del mondo – può trovare una sua, sia pur incorretta per non dire corrotta, “logica”. Veniamo, da ultimo ma sempre restando in tema, a due delle parole più gettonate degli ultimi giorni: “flotilla” e “pace”. È patetica la dissonanza cognitiva da cui sono stati colti i commentatori tradizionalmente ostili alla sinistra nel trattare l’iniziativa nautica di protesta. Vero che molti dei suoi promotori sono credibili quanto un venditore di “sole” usate, vero che quasi tutti i partecipanti all’impresa – in quasi tutti gli altri “fronti” caldi del dibattito contemporaneo – si situano dalla parte sbagliata della storia che vorremmo “giusta”, vero che l’utilità concreta del viaggio è stata inferiore a uno sciopero della CGIL.
Ma tutto questo che significa? Forse che un atto di protesta e di sacrosanta indignazione diventa meno nobile e meno necessario sol perché promosso da una fazione antipatica? Forse che si dovrebbe rinunciare a un corteo (non parliamo ovviamente dei blocchi del traffico stradale o ferroviario), a piedi o in barca che sia, sol perché quel corteo non metterà a tacere le armi? Quando mai una protesta civile e pacifica lo ha fatto? E quando mai la sua scarsa utilità politica, diplomatica, fattuale è stata un buon motivo per rinunciarvi? La storia dovrebbe insegnare che è proprio del mutismo delle maggioranze silenziose che si sono nutriti i peggiori genocidi della storia.
Infine, la pace. “Pace” in che senso? Mi perdonino lorsignori. Dove sono i due eserciti l’un contro l’altro armati? Non è neanche questione di saper guardare i fatti, basta saper leggere e capire il senso profondo delle parole. Non c’è nessuna pace da celebrare, anche se le povere vittime della devastazione, scampate a una sorte ancor peggiore, giustamente festeggiano per essere tornate a (quel che resta della loro) “casa”. Semmai, potremmo parlare di “fine” di uno dei massacri più odiosi e indiscriminati che le cronache antiche e recenti ricordino. Ma per una fine di questo tipo non si stappano le bottiglie, non si gongola con i titoloni, non ci si congratula con gli “artefici”. E, anche solo per un elementare senso del pudore, non si assegna un Nobel. Fatelo sapere a chi se lo aspettava.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com

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