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Nobel per la Pace 2025: Vince María Corina Machado, ma la vera pace l’ha fatta un altro…

Nobel della discordia: premiata l’oppositrice di Maduro, ma è Trump il vero pacificatore del 2025. Mentre Oslo sceglie il simbolo di una lotta incompiuta, il tycoon ha appena fermato la guerra a Gaza.

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Venerdì mattina, da Oslo, è arrivata la notizia che in molti attendevano, ma che pochi, a ben vedere, si aspettavano in questi termini: il Premio Nobel per la Pace 2025 è stato assegnato all’attivista e leader dell’opposizione venezuelana, María Corina Machado. Una scelta di campo, potremmo dire, quasi un manifesto politico. Il Comitato norvegese ha premiato il coraggio, la perseveranza e la lotta non violenta per la democrazia contro il regime di Nicolás Maduro. Un riconoscimento, nelle motivazioni ufficiali, “alla sua indomita battaglia per ripristinare le libertà civili e i diritti umani in Venezuela”.

Nessuno intende sminuire il valore della figura di Machado, una donna che ha sacrificato la propria sicurezza e libertà per una causa. Tuttavia, la scelta solleva una domanda tanto semplice quanto brutale, nello stile della realpolitik: il Nobel premia le intenzioni o i risultati? Perché mentre a Oslo si celebrava un simbolo di una pace ancora tutta da conquistare, il mondo, quello vero, negli ultimi mesi ha assistito a pacificazioni ben più concrete, orchestrate da un attore che, con ogni probabilità, il comitato del Nobel non prenderebbe in considerazione neanche sotto tortura: Donald J. Trump.

Nonostante questo siamo convinti che a Trump, che ritiene il regime Maduro illegittimo e ha messo una taglia di 50 milioni di Dollari sul leader venezuelano, questa nomina dispiacerà un po’ meno.

Chi è María Corina Machado: biografia di una “Dama di Ferro” incompiuta

Per comprendere la scelta del Comitato, è necessario ripercorrere la storia di María Corina Machado Parisca, nata a Caracas nel 1967 in una delle famiglie più influenti del Paese. Ingegnere industriale con specializzazione in finanza, la sua carriera politica è lontana anni luce dal populismo socialista che ha travolto il Venezuela. La sua è la storia di una borghesia illuminata e preparata, gettata in un’arena politica brutale.

Entra sulla scena pubblica nel 2002 come co-fondatrice dell’associazione Súmate, un’organizzazione nata per vigilare sulla trasparenza elettorale e che diventerà presto uno dei principali motori del referendum revocatorio (poi fallito) contro Hugo Chávez nel 2004. Questo le costa una prima, pesante accusa di “tradimento della patria”.

La sua ascesa politica è rapida:

  • 2011: Viene eletta deputata all’Assemblea Nazionale, risultando la candidata più votata nella storia del parlamento venezuelano. La sua voce diventa una delle più critiche e taglienti contro il chavismo.
  • 2012: Fonda il suo movimento politico, Vente Venezuela, un partito di chiara ispirazione liberal-conservatrice.
  • 2014: La sua carriera parlamentare viene stroncata. Il presidente dell’Assemblea, Diosdado Cabello, la destituisce con un’interpretazione forzata della Costituzione, dopo che Machado aveva accettato di parlare presso l’Organizzazione degli Stati Americani (OAS) come “rappresentante supplente” di Panama per denunciare le violazioni dei diritti umani nel suo Paese.
  • 2023: Vince in modo schiacciante le primarie dell’opposizione unita, con oltre il 90% dei voti, diventando la candidata designata a sfidare Maduro.
  • Inabilitazione: Pochi mesi prima delle primarie, il regime, sentendo il pericolo, la inabilita politicamente per 15 anni, impedendole di candidarsi a qualsiasi carica pubblica.

La figura di Machado è quella di una combattente tenace, una “dama di ferro” tropicale che non ha mai ceduto al compromesso con un regime che considera criminale. A differenza di altri leader dell’opposizione, ha sempre rifiutato dialoghi che considerava “trappole” per legittimare Maduro. La sua linea è sempre stata chiara: nessuna coesistenza con la dittatura, ma una transizione verso la democrazia. Ed è proprio qui che il Nobel si scontra con la realtà: la sua è una lotta nobile, ma, ad oggi, non vittoriosa. Il Venezuela è ancora saldamente nelle mani di Maduro. Il premio, quindi, è un incoraggiamento, un faro acceso su una tragedia, ma non la celebrazione di una pace raggiunta.

Il mondo reale e il pacificatore ignorato: Donald Trump

E mentre Oslo premiava un’aspirazione, Washington, o meglio, Mar-a-Lago, collezionava risultati. La presidenza Trump, nel suo secondo mandato, ha smentito tutti i critici che lo dipingevano come un guerrafondaio. Con un approccio che mescola minacce economiche, pragmatismo e una buona dose di personalismo, Trump ha ottenuto ciò che decenni di diplomazia tradizionale avevano fallito nel realizzare.

Vediamo i fatti, in rapida successione:

ConflittoData MediazioneEsitoMetodo
India-PakistanMaggio 2025Cessate il fuoco immediato dopo giorni di scontri in Kashmir.Pressione diretta sui due governi, legando la pace a negoziati commerciali favorevoli con gli USA.
Cambogia-ThailandiaLuglio 2025Accordo per porre fine a scontri di confine, con ripresa dei negoziati commerciali.Minaccia di dazi punitivi del 36% se le ostilità non fossero cessate. “Senza pace, niente affari”.
Israele-HamasOttobre 2025Storico accordo firmato per la prima fase di un piano di pace.Mediazione diretta che ha portato a un accordo per il rilascio di tutti gli ostaggi in cambio di prigionieri e il ritiro israeliano, con Trump stesso a presiedere un futuro “Board of Peace”.

L’accordo di Gaza, annunciato appena due giorni fa, è un capolavoro di pragmatismo trumpiano. Per mesi, la diplomazia internazionale si era incartata in veti incrociati e richieste irricevibili. Trump ha messo sul tavolo una proposta “prendere o lasciare” che offriva qualcosa a tutti: a Israele il ritorno dei suoi cittadini e la sicurezza; ad Hamas il ritiro delle truppe e la liberazione di migliaia di prigionieri; ai palestinesi la fine della guerra e un comitato tecnocratico per la ricostruzione. Il tutto garantito da un organismo internazionale presieduto da lui stesso e da altri leader.

Lo stesso premier israeliano Netanyahu ha dichiarato: “Ora dategli il Nobel per la pace”. Un appello ripreso persino dal presidente egiziano Al-Sisi. Ma si sa, a Oslo certi nomi sono impronunciabili.

In conclusione, l’assegnazione del Nobel a María Corina Machado è un gesto politicamente corretto, un omaggio a una lotta giusta ma incompiuta. È il premio a un’idea di pace. Gli accordi di Trump in Medio Oriente e in Asia, per quanto meno “poetici” e basati su freddi interessi economici, rappresentano invece la pace dei fatti. Il Comitato del Nobel ha scelto il simbolo, ignorando il risultato. Una decisione che, con un pizzico di ironia, ci dice molto di più sullo stato della diplomazia occidentale che sulla situazione reale del mondo.

Domande e Risposte

1) Perché María Corina Machado ha ricevuto il Nobel nonostante non abbia ancora raggiunto il suo obiettivo in Venezuela?

Il Comitato per il Nobel ha spesso premiato figure che rappresentano una lotta o un ideale, non necessariamente un risultato già conseguito. È il caso di premi come quelli a Lech Wałęsa o Aung San Suu Kyi. Il premio a Machado va interpretato come un potente messaggio di sostegno internazionale alla sua causa e una condanna esplicita al regime di Maduro. Si premia il metodo (la lotta non violenta) e il coraggio, nella speranza che il riconoscimento possa fungere da catalizzatore per un cambiamento futuro e proteggere la stessa Machado da ulteriori persecuzioni.

2) Qual è la differenza fondamentale tra l’approccio di Trump alla pace e quello della diplomazia tradizionale?

La diplomazia tradizionale si basa su lunghi negoziati multilaterali, risoluzioni ONU e pressioni politiche spesso bloccate da veti incrociati. L’approccio di Trump, invece, è transazionale e bilaterale. Usa la potenza economica degli Stati Uniti come leva principale, trasformando i negoziati di pace in veri e propri “deal” commerciali. La sua logica è semplice: la pace deve essere più conveniente della guerra. Mette sul tavolo incentivi economici tangibili (accordi commerciali, stop ai dazi) in cambio di cessate il fuoco, bypassando le sovrastrutture ideologiche e andando dritto al punto con i leader coinvolti.

3) L’accordo di pace per Gaza mediato da Trump è davvero definitivo?

L’accordo annunciato è la “prima fase” di un piano più ampio. Questa fase è cruciale perché prevede il cessate il fuoco, il rilascio di tutti gli ostaggi e un ritiro israeliano, risolvendo l’emergenza umanitaria immediata. Tuttavia, le questioni più complesse, come lo status politico futuro di Gaza, il disarmo completo di Hamas e la soluzione a due Stati, sono rimandate alle fasi successive. Il successo dipenderà dall’implementazione di questo primo passo e dalla volontà delle parti di continuare a negoziare sotto la supervisione del “Board of Peace” guidato da Trump.

E tu cosa ne pensi?

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