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UN MODERATO CONTRO I MODERATI

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Il diritto romano imponeva: “audiatur et altera pars”, si ascolti anche la controparte. Anche quando sembra che qualcuno abbia ragioni inoppugnabili, si può scoprire che il suo oppositore ha da avanzare valide controdeduzioni. È il “principio del contraddittorio”. Anche nel diritto anglosassone è regola indefettibile il diritto dell’accusato di confrontarsi in giudizio col suo accusatore. Infatti è raro che qualcuno abbia interamente torto e qualcuno interamente ragione, che qualcosa sia interamente bianco o interamente nero. Inoltre, non sbilanciandosi, ci si lascia aperta la porta per una migliore informazione o per un maggiore approfondimento.
Essere moderati è una qualità, e tuttavia, pensando ad un episodio della vita di Lavoisier, si è indotti ad avere qualche dubbio. Oggi quello scienziato è famoso per la sua “legge”, secondo la quale “nel corso di una reazione chimica la somma delle masse dei reagenti è uguale alla somma delle masse dei prodotti”, ma il fatto era stato osservato prima di lui da un altro studioso. Purtroppo costui – forse non sicuro delle proprie osservazioni, forse prudente, forse moderato – aveva soltanto affermato che quella somma era “quasi” uguale. E il risultato è che nessuno ricorda più il suo nome. Perché a volte la verità non usa il “quasi”.
È questo il limite della moderazione. Se non si hanno precise ragioni per una posizione netta, il dubbio, la prudenza – l’attesa, perfino – si possono giustificare. Se c’è il rischio che la si debba ribaltare, meglio non prendere posizione. Ma se ci sono tutti i dati necessari per un giudizio netto, mantenere un equilibrio fra chi ha interamente ragione e chi ha interamente torto è soltanto sbagliato. Recuperata la refurtiva non se ne può lasciare una parte al ladro, soltanto per avere una posizione equilibrata fra lui e il derubato.
La moderazione è una virtù, se deriva da un lodevole scrupolo di giustizia, ma se va a scapito della verità e dell’onore corrisponde soltanto a vigliaccheria e protezione dei propri interessi. Nei “Promessi Sposi” c’è un episodio gustoso. Un potente commetteva una prevaricazione nei confronti di Renzo Tramaglino e don Abbondio guardava il malcapitato con l’aria afflitta, quasi dicendogli: “Che peccato, benedetto figliolo, che non siate voi il più forte, ché in questo caso sarei stato volentieri dalla vostra parte”.
È per questo genere di ragioni che non si può desiderare avere Giuliano Amato come Presidente della Repubblica. Si tratta di un grande competente, di una persona moderata e cortese, probabilmente eccellente nella posizione di arbitro, e gli si può perfino perdonare quel provvedimento col quale, nottetempo, indusse lo Stato a rubare il sei per mille da tutti i depositi bancari. Si può anche cercare di dimenticare l’assurda difesa di un cambio irrealistico della lira, nel 1992, che costò allo Stato una buona parte delle sue riserve d’oro e arricchì George Soros al di là delle sue già monumentali speranze. Ma non è facile perdonargli l’atteggiamento avuto nei confronti di Bettino Craxi nel momento in cui questi cadde in disgrazia, ben al di là dei propri demeriti. Il peculato sistematico non è mai stato una pratica commendevole ma allora era praticato da tutti i partiti, inclusi quelli che davano addosso a Craxi. Incluso quel Partito Comunista Italiano – quello della questione morale – che poi fu salvato da una provvidenziale amnistia. Ebbene, in questo contesto Amato – colui che era considerato “il braccio destro di Craxi” – osò affermare di non aver saputo nulla di ciò che sapevano tutti gli italiani e segnatamente tutti quelli che avevano a che fare con la politica. Uscieri e dattilografi inclusi. Per giunta non espresse una sola parola di solidarietà, di stima, o di amicizia, nei confronti di Craxi. Qualcuno, secoli prima, a proposito di un amico, aveva detto: “Io? Non lo conosco” (Matteo, 26,69-75).
Quando si nega la verità per interesse, è segno che si preferisce l’interesse alla verità: e ciò non qualifica per nessun incarico che richieda qualità morali. È questa la ragione per la quale non si potrà mai giudicare un notevole uomo di Stato Giorgio Napolitano: nel 1956 infatti – già allora non era un ragazzino, anzi faceva parte dei dirigenti del Partito Comunista Italiano – egli osò lodare la sanguinosa repressione sovietica della rivoluzione ungherese, accettando perfino la tesi assurda e provocatoria che quella non era una rivolta di popolo, ma una sommossa finanziata dagli occidentali. La bugia era talmente colossale che lo stesso interessato, decenni dopo, l’ha ammessa ed ha chiesto scusa. Ma questa scusa non è stata udita dai morti di Budapest, e non è stata accettata da chi, come chi scrive, sul momento versava lacrime su quei caduti per la libertà.
Gianni Pardo, [email protected]
21 gennaio 2015


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