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Il mercato discografico è davvero in crisi? Verità e bugie del piagnisteo dell’industria musicale

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Taylor Swift casta

Due settimane fa l’ultimo album di Taylor Swift “1989” ha debuttato in vetta alla classifica di Billboard vendendo, secondo i dati della Nielsen-Soundscan, 1 milione e 300mila copie. Un dato di per se eccezionale, ma che per alcuni è un allarme. Difatti di tutti gli album usciti nell’anno solare in corso “1989” è il primo a superare la soglia del milione di copie e a qualificarsi così come “disco di platino”. Ebbene sì, in undici mesi nessun album uscito nel corso dell’anno solare aveva superato questa soglia psicologica nel mercato statunitense. Anzi, alcuni allarmisti sostengono che “1989” potrebbe essere l’ultimo album a raggiungere tale soglia.

Questo improvviso allarme si inserisce alla stantia litania che da dieci anni parla del collasso del mercato discografico. Da dieci anni infatti il mondo dell’industria musicale si lagna di internet e della rete che avrebbe distrutto l’industria musicale e il suo mercato, ma è davvero così? Sul serio l’avvento dell’era di internet ha definitivamente distrutto il mercato musicale?

Diciamo che, dipende dai punti di vista. A guardare infatti i dati grezzi, il mercato discografico non è mai stato tanto florido come ai nostri giorni. Parlando degli Stati Uniti, massimo mercato discografico, nel 2013 sono stati venduti, secondo Nielsen Soundscan, 1 miliardo e 500 milioni di dischi. Un incremento notevole rispetto al principio del millennio. Nell’anno 2000 infatti vennero venduti “solo” 940 milioni di dischi. Perché se v’è stato un così forte incremento nelle vendite l’industria discografica piange miseria da dieci anni? Perché il 2000 viene visto come l’anno dei record e viene normalmente ricordato come l’ultimo anno di “vacche grasse” prima del collasso?

Qui signori casca l’asino, rispetto al 2000 il mercato discografico è cresciuto moltissimo ma… ma uno specifico prodotto del settore, per inciso quello più lucrativo è in crisi nera, anzi nerissima, ovvero l’album.

Ebbene sì, la grossa differenza tra il mercato odierno e quello dei “magnifici” anni ’90 sta principalmente nel diverso tipo di prodotto acquistato dai consumatori. Nel 2000, quando il mercato discografico raggiunse l’apice dopo una decade da record quale gli anni ’90, vennero venduti 940 milioni di dischi di cui 780 milioni di album e 160 milioni di singoli. Nel 2013 invece negli Stati Uniti sono stati venduti un miliardo e mezzo di dischi, ma di questi “solo” 290 milioni sono album, il restante miliardo e 300 milioni sono tracce singole.

La decade dei record, ovvero i mitici anni ’90 in cui la RIAA distribuiva dischi d’oro e di platino come noccioline, era stata possibile anche grazie a una furbata delle case discografiche. Per aumentare le vendite degli album le case discografiche fecero sparire i dischi singoli. Nel corso degli anni ’90 sempre più spesso i singoli estratti non venivano pubblicati, ma erano semplicemente rilasciati nelle radio oppure pubblicati in edizione limitata divenendo così introvabili nel giro di poche settimane. Questa politica tra l’altro portò le case discografiche a ripetuti scontri con la rivista Billboard, la rivista che stila le classifiche ufficiali degli Stati Uniti. La classifica dei singoli di Billboard si basa su un “mix” tra passaggi radiofonici e vendite, ma fino al 1998 Billboard non permetteva ai cosiddetti “singoli promozionali”, ovvero i singoli rilasciati solo nelle radio, di entrare nella sua classifica.

Per questo nella storia della “HOT 100” non v’è traccia di pezzi come “Zombie” dei Cranberries; “Basket Case” dei Green Day; “Thorn” di Nathalie Imbruglia e “Don’t Speak” dei No Doubt. Autentici inni degli anni ’90, suonatissimi dalle radio e conosciutissimi dal pubblico, ma impossibilitati ad entrare in classifica perché non pubblicati ufficialmente. Inutile dire che l’operazione per i pezzi in questione funzionò a meraviglia e spedì nella stratosfera le vendite degli album da cui erano tratti.

Insomma, l’uccisione del disco singolo fece toccare al lucrativo mercato degli LP vette mai viste, ma a metà del 2003 aprì I-Tunes e da allora nulla fu più come prima. E’ vero che già il periodo tra il 2001 e il 2003 mostrava un trend in calo per le vendite degli album, ma da quando è stato aperto il negozio della mela, gli LP sono progressivamente collassati. Quando nel 2004 cominciò “l’era I-Tunes” gli album venduti negli USA furono 670 milioni, ora dopo quasi dieci anni le vendite degli album sono più che dimezzate, nel 2013 gli album venduti sono stati meno di 300 milioni.  Le vendite delle singole tracce invece sono decuplicate, passando dai 140 milioni del 2004 al picco del miliardo e 300 milioni toccato nel 2012 e quasi replicato lo scorso anno.

L’avvento di I-Tunes e dell’I-Pod ha reso possibile alla generazione dei cosiddetti “millenials” scegliere cosa poter comprare senza per forza prendersi un intero album fatto di due-tre canzoni decenti e una decina di riempitivi. La cosa ha però provocato un danno incalcolabile ai profitti delle case discografiche, impossibilitate a gonfiare le vendite degli album sottraendo al pubblico la possibilità di acquistare i singoli, e a speculare sui prezzi dei CD, hanno visto paradossalmente i loro profitti crollare ai minimi storici nonostante le vendite siano ai massimi storici. I-Tunes infatti vende le singole tracce a 99 centesimi, un prezzo addirittura inferiore a quello dei vecchi singoli, e dato che ormai le singole canzoni compongono l’80% del mercato, ovvero esattamente l’opposto di quello che era il rapporto tra album e singoli nel 2000 dei record, potete facilmente immaginare quale sia stato il danno economico per i discografici.

Le major con il loro potere lobbistico in questi dieci anni hanno tentato di convincere i governi che il problema fosse la pirateria, ma la realtà dei numeri però ci mostra che le cose non stanno affatto così. Le vendite legali sono ai massimi storici, ma le major non sono state in grado di intuire il cambiamento per tempo, finendo così travolte dallo scoppio della bolla che avevano creato negli anni ’90. Per correre ai ripari i discografici stanno spingendo allo stremo l’attività dal vivo dei cantanti e il relativo merchandising collegato, per la gioia ovviamente dei fan.

Ma allora gli album sono ormai definitivamente morti? Non c’è più alcuna possibilità per chi ha davvero delle cose da dire, e per dirle ha bisogno di un intero album, e non solo l’ossessione di vendere il più possibile con canzonette da classifica? Assolutamente no, anzi, nel silenzio generale sta accadendo un fenomeno che potrebbe aprire un futuro interessante per i cantanti di nicchia

A partire dal 2008 si sta verificando un interessante revival del vinile nel mercato statunitense. Negli ultimi sei anni, mentre le vendite dei CD si andavano progressivamente sfracellando, il numero di album in vinile venduti saliva in maniera esponenziale. Da meno di un milione di vinili venduti nel 2007 si è arrivati ai sei milioni nel 2013. Nella prima parte del 2014 si è verificato un ulteriore aumento del vinile e il prossimo anno, se prosegue il trend positivo, i vinili supereranno la soglia psicologica delle 10 milioni di copie. La quota di mercato dei vinili continua a salire, mentre quella dei CD si sfracella sempre di più. Probabilmente nei prossimi anni assisteremo a una sorta di sdoppiamento del mercato discografico, coi cantanti pop più gettonati che smetteranno di pubblicare album e si limiteranno a far uscire singoli in serie, che magari poi saranno raccolti in un greatest hits, mentre i cantanti di nicchia o più impegnati continueranno a pubblicare album interi, magari abbandonando del tutto il disco argenteo per il buon vecchio vinile.

A complicare ulteriormente  le previsioni sul futuro dell’industria discografica c’è poi l’ultimissima novità, quella dello streaming, ovvero dei siti come Spotify che permettono di ascoltare le canzoni in rete tramite varie forme di abbonamento. Billboard lo scorso anno ha incluso lo streaming nelle sue graduatorie affiancandolo all’airplay radiofonico e ai download digitali come componente della Hot 100. Negli Stati Uniti ci si sta già scervellando su come far incidere lo streaming nelle certificazioni di vendita. E’ forse troppo presto per capire come i siti di streaming incideranno nel mondo dell’industria discografica, per cui per l’argomento rimando a un buon articolo de “Il Post”

Tutto questo papiro per dire che, nonostante il continuo piagnisteo con cui i discografici sono soliti scartavetrarci le gonadi da dieci anni a questa parte, l’industria musicale non è affatto morta, anzi è più viva che mai. Semplicemente le case discografiche non fanno più i profitti stratosferici di un tempo, ma questo non per colpa dei “pirati cattivi”, bensì perché il mercato è cambiato profondamente con l’avvento di Internet, con la rivoluzione di I-Tunes prima e di Spotify oggi, prenendoli completamente in contropiede. Ragion per cui la prossima volta che sentirete partire la litania sulla “crisi della discografia” saprete come rispondere

Julien Sorel


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