Economia
Maurizio Blondet: “Quando il debito è troppo, non si paga”.
Dal lettore Francesco arriva una lunga mail sui problemi monetari, e su qualche soluzione da lui ideata: che sostanzialmente rientra nell’emissione di monete complementari. Il discorso sarebbe troppo complesso, ne ho del resto trattato nel mio «Schiavi delle Banche» al capitolo su Gesell.
Mi limito a prendere da lui uno spunto. Questo:
«… per decidere di uscire dall’euro occorre una strategia precisa e condivisa con altri stati incravattati, occorre creare un fronte comune, lavorando sia sui movimenti d’opinione che alla fondazione di una nuova istituzione politica internazionale che vada a fronteggiare quelle nemiche già esistenti. Insomma bisogna informare i popoli che si andrà incontro ad anni di embargo economico e soprattutto commerciale, non avremo più medicine a buon mercato e pane e latte sotto casa, molte cose dovremo produrcele da noi e per far fronte a tutte queste necessità sarà vitale approntare da subito misure drastiche per la riorganizzazione nazionale…»
Anche se plaudo alla tua idea, Francesco, che la difficoltà attuale richiede una «riorganizzazione nazionale» come in uno stato di guerra (in cui effettivamente siamo), vorrei tranquillizzarti sulle ritorsioni che potremmo subire: embarghi commerciali, blocchi finanziari, autarchia stretta eccetera.
Non avviene così. Vorrei ricordare che se gli Stati europei del Sud hanno «bisogno» di indebitarsi, i creditori e la finanza ha «bisogno» di indebitare; chi ha masse di liquidità enormi come quelle in circolo attualmente, ha necessità di investire le per ricavarne interessi. Non può farne a meno. La finanza non può fare a meno di estrarre dal lavoro umano il suo prelievo e tributo; e lo fa prestando. Anche in questo senso Ezra Pound scrisse: «Un popolo che non s’indebita fa rabbia agli usurai».
Il giorno in cui uscissimo dall’euro e tornassimo alla liretta, ovviamente in concomitanza ripudiando (o ristrutturando) il debito pubblico, agli occhi dei prestatori internazionali – che hanno bisogno di «impiegare» i fondi – torneremmo competitivi, con prospettive di crescita (che ora l’euro forte e l’austerità ci toglie), e dunque «i mercati» farebbero la fila per prestarci denaro, per indebitarci di nuovo, a nuove condizioni. Il problema sarebbe rifiutare di indebitarci troppo alla svelta di nuovo. Con la classe politica che abbiamo, e con i milioni di parassiti pubblici in attesa di aumenti automatici di stipendio, è questo il problema da risolvere. Non certo quello di avere denaro in prestito per i nostri Bot, BTP e per le nostre aziende – se tornano competitive.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, i Paesi europei affondavano nei debiti contratti con gli Stati Uniti. Debiti stratosferici, che costituivano palle al piede anzi macine da mulino per le economie. Per anni, Italia Francia e Regno Unito pagarono al creditore miliardi di interessi e quote del debito.
Ad un certo punto, nei primi anni ’30, Washington condonò i debiti di guerra degli alleati. La cifra che rinunciò a reclamare dal debitore Italia era enorme, pari al 19% del nostro Prodotto interno lordo di allora; alla Francia, condonò il 22% del Pil; alla Gran Bretagna, addirittura il 25%. È come se i creditori ci condonassero, oggi, circa 300 miliardi di euro. Inoltre, Washington ridusse le proprie pretese sulle riparazioni di guerra richieste alla Germania sconfitta dal Trattato di Versailles.
Perché lo fecero gli americani? Perché erano altruisti? Erano diventati buoni samaritani? No. Lo fecero a loro proprio vantaggio. Per tre motivi: primo, il peso del debito nelle nazioni europee le schiacciava, l’immane prelievo (interessi più ratei) sottraeva risorse alle loro economie (investimenti, commercio e consumi), che segnavano il passo o erano in recessione, sicché anche la finanza americana non aveva più niente da guadagnare da una simile paralisi. Secondo: in ogni caso, presto o tardi gli Stati ultra-indebitati avrebbero fatto default e ripudiato il debito, sicché la superpotenza creditrice e la sua finanza avrebbero comunque subito una perdita maggiore. Terzo (ma non ultimo), la finanza americana aveva già lucrato abbastanza dal decennio di interessi riscossi, per poter essere generosa. Si aggiunga che gli stessi Stati Uniti imposero ai propri creditori una sforbiciata sul loro debito, quando uscirono dal Gold Standard: un alleviamento pari al 16% del Pil americano.
La «generosità» serviva – come il condono dei debiti, il Giubileo, prescritto nella Bibbia – a rimettere in moto il gioco economico-finanziario. Le pedine rimesse alle caselle di partenza, i debitori tornavano a potersi indebitare, e ricominciava la partita.
È proprio quello che due economisti di Harvard, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, in uno studio per il Fondo Monetario, consigliano all’Europa: una serie di generose sforbiciate ai debiti pubblici, ristrutturazioni concordate, «condoni stile anni ’30». I debiti dei Paesi europei – anzi di tutti i Paesi sviluppati – dicono i due professori, sono ad un livello mai visto nei due secoli precedenti. Non v’è alcuna possibilità che tale debito venga onorato.
Tutte le economie avanzate sono stra-indebitate: fra pubblico e privato, il loro debito supera il 250% del Pil; le economie emergenti al contrario stanno riducendo il loro debito.
Il denaro in prestito irriga gli investimenti e i consumi, e dunque favorisce la crescita, fino ad un certo livello (che i due economisti valutano attorno al 90% del Pil); quando il denaro prestato supera quella soglia, al contrario, ostacola la crescita, la rallenta e infine la impedisce. È nell’interesse dei creditori, a quel punto, accettare una ristrutturazione del debito, per rimettere in moto il motore collettivo.
Il consiglio dei due professori è rivolto sostanzialmente allo Stato creditore, la Germania coi suoi satelliti. «La dimensione del debito mostra che occorre una ristrutturazione, per esempio nei periferici europei, ma non se ne discute». I creditori (leggi: Germania) continuano a pensare «ottimisticamente» che i Paesi indebitati possono essere costretti ad onorare il debito, traendo le risorse da profondi tagli della propria spesa pubblica e privata (austerità), senza ripudiare il debito né altre misure che «ridurrebbero la loro credibilità» come debitori. Ma invece, come si vede, l’insistenza del creditore nell’esigere austerità, la sua ostinazione nel vedersi pagati i ratei e gli interessi, allo stesso tempo impedendo lo «stimolo monetario» (la stampa di euro dalla BCE), porta a questo risultato: che per i paesi periferici il debito, anziché calare, cresce rispetto al Pil (perché questo cala); la loro credibilità presso i mercati è a terra; la possibilità che gli stati più vulnerabili finiscano per fare default è aggravata dal fatto che, non avendo più le loro monete sovrane, «si trovano nelle stesse condizioni che si indebitarono in dollari negli anni 1980-90», come l’Argentina, che dovevano ripagare i debiti in una moneta che dovevano guadagnarsi con le loro esportazioni, svendendole. E non ce la fecero comunque.
La Germania farebbe meglio ad accettare grosse riduzioni dei debiti in un colpo solo, accettandone le perdite, anziché tirare in lungo con aggiustamenti e «tolleranze» che non risolvono il problema. Anche se aderisse a qualche mutualizzazione del debito europeo (cosa che non vuole) la Germania non farebbe che dissanguare la sua economia. Meglio «una botta e via»: fallimenti e poi si ricomincia.
Ostacolare tale soluzione, come fanno i tedeschi, finirà per aggravare anche loro, il loro indebitamento e la loro propria crisi demografica. Certo è dura per i creditori, specie se sono di vedute ristrette (o se sono creditori poveri, come i pensionati o i piccoli risparmiatori): ma quando il debito è al livello mai raggiunto negli ultimi 200 anni, non c’è altra cura da accettare che questa: default, più alta inflazione e persino tasse sui risparmi. Già perché tutta la cura consiste, in fondo, in una confisca parziale dei risparmi, magari non con prelievo fiscale diretto e palese, ma con inflazione non compensata da interessi in crescita. Anche così i Paesi si liberarono del debito enorme accumulato nella seconda guerra mondiale: in Italia, per vari anni dopo il conflitto, i tassi d’interesse reali furono negativi per -5%; in Gran Bretagna (ed Usa) fra il -2 e il -4%.
Così, caro Francesco, non credo che dovremmo soffrire di ritorsioni o penuria di credito se uscissimo dall’euro e riducessimo i nostri debiti. La cosa si ridurrebbe ad una ridistribuzione: all’interno, sarebbero penalizzati pensionati e detentori di risparmi («i vecchi») ma ad avvantaggiarsene sarebbe «i giovani», liberati dalla macina da mulino del debito da «servire», e pronti a ricominciare. Personalmente, io come puoi capire ne sarei danneggiato; ma il prezzo mi pare degno di essere pagato, per la rinascita dell’Italia e delle speranze delle generazioni nuove.
Ciò che non è degno, è venire tosati e indebitati per pagare gli stipendi a questa cosiddetta classe dirigente. Perché questo è il punto: una volta liberatici dell’euro e del debito, non ci siamo liberati delle categorie che hanno prodotto questo indebitamento. E che ci indebiterebbero ancora per le «spese correnti», ossia per stipendiare se stessi e le proprie lobbies e cosche che li tengono al potere, pagandosi con soldi che non hanno, perché l’economia non li produce. In una parola: lorsignori che vivono al disopra dei nostri mezzi, e che – come dimostrano – non hanno alcuna intenzione di ridurre il loro «stile di vita».
La vicenda degli scatti d’anzianità degli insegnanti, prima dati poi rimangiati da Saccomanni poi ridati per le urla di proteste di varie platee sindacali e politiche, è tristemente istruttivo, per molti versi. Anzitutto, è scandaloso che gli insegnanti abbiano scatti automatici d’anzianità, qualunque cosa accada al resto dell’economia, oggi in tragica recessione. Il resto dei lavoratori nel settore privato riceve tagli e tagli, e il gettito tributario cala per la recessione: ma per alcuni milioni di privilegiati, è come se l’Italia fosse sempre nel miracolo economico.
Inoltre: quelli che Saccomanni voleva riprendersi sono degli «incentivi» fino a 1800 euro annui, che qualche migliaio di insegnanti avevano preso per «mansioni che vanno oltre i normali compiti» (sic). È probabile che siano illegittimi. Ma davanti alle urla politiche, sindacali e mediatiche, Letta ha ceduto subito: «Gli insegnanti non dovranno restituire i 150 euro».
Sùbito si sono fatti avanti i sindacati degli altri statali: «Oddio, i nostri stipendi sono bloccati da anni! vogliamo gli aumenti!»… e li avranno, perché sono ben protetti lorsignori. A spese nostre, ovviamente. Noi non ci protegge nessuno.
Ripugnante e preoccupante lo scaricabarile fra il ministro Saccomanni e la ministra Carrozza: «Sono un mero esecutore», ha detto lui; «È colpa di qualche burocrate», ha detto lei, annunciando sùbito dopo che «non avrebbe fatto la caccia al colpevole» nei suoi uffici.
È lo stile Schettino arrivato ai vertici: scarico delle proprie responsabilità dopo il disastro, il comandante che salta per primo nella scialuppa di salvataggio. Incompetenza sesquipedale, superficialità, viltà ed abiezione.
Quello che mi allarma di più, caro Francesco, è che questi due, Saccomanni e Carrozza, sono stati messi in quelle poltrone raschiando il fondo del barile: uno prelevato dalla mitica Banka d’Italia, leggendario serbatoio delle «riserve della repubblica», l’altra dal settore della celebrata «ricerca scientifica». La Carrozza, al ministero, non ha mai dato segno di sé, e come inutile rivaleggia persino con la Kienge, se non per il fatto che almeno se ne stava zitta sperando che nessuno si ricordasse di lei. Saccomanni? È la dimostrazione che il personale di Bankitalia non riesce più nemmeno a fare quello che ha sempre fatto: simulare importanza e competenza, intelligenza, riservatezza, serietà.
Ogni nuovo governo fa rimpiangere il vecchio. Il governo Monti, preso dalle università (e dalla Bocconi) doveva essere il meglio del meglio; oggi possiamo dire che al confronto, il ministro Tremonti giganteggia sullo sfondo della storia; anzi persino Prodi sembra un titano. Il governo Letta con Carrozza, Saccomanni e Kienge, fa rimpiangere Monti e la Fornero. Il tragico (o tragicomico) è che non ci sono più settori dai quali pescare personale tecnico-politico decente, minimamente all’altezza della dimensione della crisi. Il sospetto complottista che questi siano stati scelti così dall’eurocrazia, dalla BCE e dai tedeschi per eseguire i loro ordini, non giustifica nulla: credo che persino i tedeschi siano stupefatti di come Monti, Letta, Saccomanni siano scemi. Volevano esecutori, ma appena appena intelligenti e di carattere. Questi non lo sono.
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Ciò dà la misura di quanto immane sia il degrado italiano. Fino a qual punto s’è guastata la cosiddetta selezione delle élites. E non esentiamo «il popolo italiano» dalle responsabilità che ha in questo: invariabilmente, ostinatamente, per istinto, l’ho visto applaudire i più ignoranti, esaltare alle poltrone i più facilisti e pressapochisti, dare fiducia ai peggiori zoticoni negandola alle persone serie. Da Di Pietro a Grillo, passando per Berlusconi e Bossi, fino all’ultima, estrema farsa tragica italiana: le famiglie urlanti che hanno preteso per i loro disgraziati incurabili figli, che il pubblico denaro pagasse le «cure» con le staminali inventate da tale Vannoni, che si fa chiamare «professore» essendo insegnante di lettere, e che ha una faccia così:
Secondo dette famiglie, questo qui sarebbe uno scienziato, e ispira fiducia. È evidente che il male italiano è incurabile, anzi peggiora.
L’ignoranza imperiosa dell’italiota, che non sente ragioni ed esige di essere obbedita «subito subito»; che si fida di una faccia così mentre non riconosce nessuna credibilità a ricercatori delle cellule staminali, tanto da ricorre contro i loro responsi al TAR del Lazio che (ovviamente) dà loro ragione, è l’esatta causa per cui la selezione delle élites fa schifo, con tutto quel che ne consegue.
Per esempio la «dittatura del TAR» (del Lazio) sulla libertà scientifica ed accademica, in nome dell’ignoranza imperiosa. Dato questo, è ovvio che ci sia un Befera, e non un competente, a capo del più importante apparato fiscale – un apparato che esso stesso ha dichiarato un «buco» di quasi un miliardo solo qualche giorno fa. È l’incapacità di massa italiana di dar fiducia a persone serie che ha portato ad università furbesche che danno pezzi di carta ormai inutili, procure che commettono arbitri e soprusi a man bassa impunemente, anzi applaudite da una parte enorme dell’opinione pubblica e dei giornali, Regioni che spendono in corruzione pura incontrollata senza che nessuno provi a fermarle, Corti Costituzionali politicizzate e furbastre (fra l’altro, questa ha sancito che i magistrati «devono» avere l’aumento automatico, altrimenti la loro «serenità» ne soffre), e su tutto, stipendi immani, enormi, che agli italiani (che li pagano, o peggio: che lo stato li paga a prendendo soldi a prestito) non pare bon ton contestare.
Esempio. Qualche giorno fa, il 7 gennaio, su Libero, l’ottimo Franco Bechis ha rivelato che i dirigenti della Presidenza del Consiglio (un ufficio con centinaia di dipendenti) si sono dati aumenti del 30% negli ultimi due anni, anni in cui gli altri italiani hanno visto diminuire le paghe o non riceverle più). Ben 54 dirigenti che nel novembre 2011 prendevano 140-150 mila euro annui , nel novembre 2013, ne percepiscono 180-200 mila e passa. E siccome sono 54, costano a coi contribuenti praticamente 10 milioni l’anno; senza contare i dirigenti di seconda fascia, passati da 73 a 88 mila euro annui. E non oso pensare alla quantità di dipendenti che un così gran numero di dirigenti deve avere sotto di sé: tutto nella sola presidenza del Consiglio.
Ebbene: un ingenuo poteva aspettarsi una risposta dal presidente del Consiglio attuale, tale Letta. Una promessa di correre a ridurre quegli aumenti fastosi e del tutto ingiustificati. Di rimediare alla spesa scandalosa. Macché. Niente. Silenzio. E impunito.
Perché impunità? Ma perché gli italiani non hanno inscenato manifestazioni contro questo scandalo; non hanno fatto nessuna delle proteste urlanti per pretendere «subito-subito» le presunte cure del presunto professor Vannoni. Non hanno agitato le manette, come fecero quando amarono tanto Di Pietro, e gli diedero fiducia. Né sono scesi in piazza in 300 mila come fu per Grillo; e i sondaggi dicono che mantengono la loro fiducia nel Cavaliere… cosa volete farci. Vi siete voluti questa classe dirigente, questi magistrati, questi docenti universitari e no, questi stipendiati da sogno mentre a voi tolgono le pensioni e i salari privati.
Possiamo anche uscire dall’euro, e sarebbe già un po’ di respiro; ma se teniamo questa classe dirigente predona, avida, ignorante e stupida – che ci piace così – non sarà che un sollievo temporaneo.
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