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Massoud, il leggendario “leone del Panshir”

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Post estremamente valido da Qelsi

Massoud

Non sappiamo se l’Afghanistan del presidente Karzai dopo le elezioni di sabato scorso riuscirà a stabilire la democrazia nel suo Paese. Dalla lettura di qualche articolo, emerge che la pacificazione nel Paese è ancora molto lontana. Da un lato si registra la consueta minaccia e offensiva dei talebani, dall’altro l’esercito governativo che cerca di affrontarla, ma non riesce ad avere il controllo del Paese e quindi tutto resta precario. La democrazia afghana ha ancora bisogno dei 50 mila soldati internazionali, tra cui i nostri soldati, che operano sul territorio. E allora si intuisce quanto fosse importante per la diplomazia internazionale sostenere la battaglia di libertà e di civilizzazione che aveva intrapreso il leggendario comandante Ahmad Shah Massud, l’unico leader, rimpianto da tutti, che forse poteva dare l’unità politica all’Afghanistan.
A questo proposito calza a pennello un ottimo libro scritto da un giornalista francese, Michael Barry, “Massoud. Dall’islamismo alla libertà”, edito da Ponte alle Grazie nel 2003.
Il comandante Ahmad Shah detto Massoud, eroe nazionale del popolo afghano, è stato un vero capo carismatico, che ha liberato prima il proprio Paese dall’invasione sovietica dell’Armata Rossa e poi dalla dittatura islamista dei talebani.
Il libro di Barry è un “raro esempio di giornalismo investigativo”, che riesce a raccontarci la figura purtroppo poco conosciuta del comandante Massud. Un difetto del testo è sicuramente la mancanza di una cartina geografica del territorio dove ha operato il leggendario comandante.
L’autore ricostruisce il percorso di questo grande personaggio che si è trovato coinvolto nella doppia lotta contro i totalitarismi sovietico e talebano. Una “lotta che ha combattuto con estremo coraggio e da cui è stato in un certo senso sconfitto, diventando un martire e ‘emblema di un eroismo della libertà, di un genio strategico messo generosamente al servizio di una tenace lotta per l’indipendenza nazionale”.
Non sappiamo se Barry dia una completa e realistica immagine del “principe filosofo”, del “comandante-signore”, l’amer-sahib, ma certamente dal testo si intravede un Massud aderente ai valori tradizionali che suggeriscono la dignità dell’essere umano e la sua ricerca a tutto tondo (anche nella dimensione spirituale) senza l’obbligo di etichette di appartenenza, che ormai paiono indispensabili nell’appiattimento quotidiano.
Certamente Massoud fu “una figura ingombrante e fastidiosa per le orecchie sorde e i cuori imbalsamati del secolo, quasi del tutto scomparsa dal consorzio umano, che lo dimenticherà in fretta per aver testimoniato senza parole, perfino in circostanze drammaticamente severe come la guerra, quell’insegnamento trasversale che scorre in molti sentieri, da Platone, a Echkart, allo Zen e il Sufismo (Al Ghazali, ad esempio, che Massoud leggeva di notte): se vuoi comprendere, dimentica te stesso”. Peraltro, durante il suo esilio a Peshawar, arrivò a leggere fino a tre libri al giorno. Il Massud politico appartiene a una specie molto rara, Barry addirittura lo accosta all’agire gesuitico, del contemplativo in azione. Un insegnamento scrive Barry, che “dista anni luce dagli incubi di un Bin Laden” e dei suoi successori.
Massoud era diverso dagli altri anche in guerra, il «leone del Panshir» viene definito, per la gentilezza dei modi e per un “profondo sentimento di pietà e clemenza”, ha sempre riservato un trattamento umano ai suoi prigionieri e non è poco nel clima di lotta senza quartiere che i mujaheddin affrontavano ogni giorni contro avversari spietati come i russi e poi i talebani. Comunque sia il capo tagiko ha studiato bene la tecnica di guerriglia di Mao Tze Tung e l’ha sempre utilizzata contro i sovietici russi, in particolare nella sua valle, il Panshir, in mezzo a cime che toccano i 6000 metri, tra valichi a 4000 metri di altitudine, tra strette gole, autentiche strozzature, con muraglie di roccia a picco. Il Barry ne elenca i vari passaggi strategici utilizzati da Massoud: “il nemico avanza, noi battiamo in ritirata; il nemico si accampa, noi lo logoriamo; il nemico si stanca, noi lo attacchiamo; il nemico si ritira, noi lo inseguiamo”. Tuttavia Massud era convinto che la prima condizione per vincere fosse quella di avere il sostegno attivo della popolazione.
Massoud non cercò mai la vendetta, “non violò mai il muro di cinta della rappresentanza delle nazioni Unite a Kabul”. Nel territorio controllato dal comandante filosofo “non si verificavano né amputazioni, né lapidazioni, nessuna delle terribili punizioni corporali previste della shari’a”. Mentre a Herat, nelle zone meridionali del paese, controllate dai talebani, si tagliavano mani e piedi e gli alberi venivano addobbati da file di mani tagliate.
Massoud nel Panshir rispettava la tradizione, eppure era stato educato a Kabul negli anni settanta in un ambiente liberale, frequentava il liceo francese, apprezzando i diritti acquisiti delle donne, tra l’altro le sue tre sorelle non hanno mai portato il velo. Di fronte alle aberrazioni talebane Massoud ha sempre saputo dare il giusto peso alla fondamentale partecipazione delle donne al gioco politico afghano. Rispondendo alla giornalista Colombani, qualche settimana prima di essere ucciso, diceva: “Noi cerchiamo di togliere alle donne le catene, mentre i talebani non fanno altro che renderle più pesanti. Così le donne hanno due nemici: la guerra e la nostra cultura(…) e dando loro la possibilità di istruirsi che potranno ottenere le armi per liberarsi”. E in un’altra intervista, sostiene che per lui “la donna e l’uomo, da un punto di vista umano, hanno entrambi lo stesso valore. Le donne potranno studiare, ottenere lo spazio che meritano in ogni tipo di lavoro, esprimere il loro voto nelle elezioni che si terranno in futuro ed essere a loro volta candidate”.
Il saggio di Barry fa capire perché alla fine Massoud era tanto odiato dagli islamisti di Bin Laden. In pratica Bin Laden doveva appropriarsi della vittoria islamica contro l’Armata Rossa, non poteva lasciarla a Massud, il simbolo della resistenza, e per questo lo ha fatto uccidere il 9 settembre 2001, da due kamikaze magrebini. Pertanto, scrive Barry: “Tanto più interessante, perciò, diventa l’avventura spirituale di Massoud. La sua eroica contestazione dell’islamismo proviene dall’interno dell’Islam, si richiama all’Islam più tradizionale e profondo, un Islam sufi, radicato in una terra, aureolato di gloria nella lotta, e a partire da ciò arriva a preconizzare la difesa di libere elezioni e dei diritti umani universali”. Dunque, secondo Barry, “nessuna personalità a tutti gli effetti musulmana che abbia lottato contro l’islamismo, in questo XX secolo ormai concluso, può dire di aver raggiunto la levatura eroica di Massud”.
Il 7 aprile 2001, quando Massoud approdò a Strasburgo per chiedere aiuto all’Europa, al giornalista del Corriere della Sera, Ettore Mo, confidò con amarezza: “I governi europei non capiscono che io non combatto solo per il mio Panshir, ma per bloccare l’espansione dell’integralismo islamico scatenato a Teheran da Khomeini… Ve ne accorgerete”. Ce ne siamo accorti tardivamente qualche mese dopo, l’11 settembre con l’atto di guerra dell’abbattimento delle “twin towers”.

 


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