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L’ITALIANO EFFIMERO

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Il vestito indica il gusto e il livello economico di una persona, il modo in cui parla indica il suo livello di cultura e di intelligenza. Proprio per questo si rimane stupiti vedendo quanto poco la gente badi al modo in cui si esprime. Forse è la conseguenza dell’abolizione del latino e dell’arrivo in cattedra degli alunni beneficiari di un eccesso di benevolenza, dal ’68 in poi. Longanimità che essi passano a loro volta ai discenti. Che importa se il ragazzo è praticamente analfabeta? Diamogli lo stesso la Licenza Media.

Le lingue sono tanto più solide quanto più severa è la riprovazione sociale per l’ignoranza. Il latino è stato parlato e scritto per qualcosa come tredici secoli e tuttavia ha subito variazioni insignificanti. Il francese è molto più stabile di altri idiomi perché in quella nazione, da Richelieu in poi, è stato considerato un monumento da preservare. Il risultato è che Corneille o Montesquieu si possono leggere senza avere la sensazione di fare archeologia espressiva. Mentre la tolleranza o l’indifferenza per l’errore conducono in breve tempo allo stravolgimento lessicale e grammaticale della buona lingua.

In questo campo come in altri l’Italia ha ben poco di cui vantarsi. Noi siamo  coralmente per lo spontaneismo. E infatti i nostri film sono per la maggior parte parlati in italiano con inflessioni dialettali, espressioni familiari o addirittura erronee. Basti pensare al correntissimo: “parlaci tu”. Gli autori probabilmente pensano che gli spettatori non si identificherebbero con i personaggi, se questi parlassero come si deve. E tuttavia questo grande principio etnico-estetico viene poi dimenticato, quando si tratta di film e telefilm stranieri che nessuno reputa inverosimili. Qui capita di sentire un accettabile italiano, anche se alcuni orrori, come il complemento di termine “gli” per una donna, sono tutt’altro che rari. I personaggi non possono parlare una lingua impeccabile perché essa è ignota in primo luogo a chi traduce i dialoghi stranieri.

Purtroppo gli errori, soprattutto quando nascono dall’ignoranza delle persone importanti, fanno proseliti. Un esempio eccellente in questo senso è “paventare”. La persona normale questo verbo non lo conosce neppure, ma l’avvocato, il deputato, il politico di provincia, sono felici di conoscerlo e all’occasione di dimostrare la loro superiore cultura. Purtroppo non sanno che esso significa “temere”, “avere paura di una certa eventualità”, e non “spaventare”, come pensano loro, ingannati dalla somiglianza dei due verbi. Sicché ottengono di capovolgere il significato di ciò che volevano dire e di indignare chi è alfabetizzato.

Le espressioni erronee e sorprendenti, in bocca alle persone importanti o dette in televisione, hanno il fascino del successo. Rendono l’italiano mutevole, cangiante, effimero. Perché dire “ci vediamo la settimana prossima”, se quel tale, in televisione, ha detto “settimana prossima”? Perché dire “in piazza Garibaldi” se quel tale ha detto “a piazza Garibaldi”? Perché dire “come anche” se si può dire “piuttosto che”, rischiando un controsenso ma mostrandosi “up to date”? Perché dire “arrampicarsi” o “evolversi” se la moda è ad “arrampicare” e ad “evolvere”? Ormai si sente continuamente, a tutti i livelli, “lui è uno di quelli che ha tradito”, invece di hanno. “A me non scandalizza, questo fatto“, invece di “questo fatto non mi scandalizza”. E se proprio si voleva sottolineare quel “me”, bastava dire: “quanto a me, questo fatto non mi scandalizza”. Ma si parla col muro.

Chi ha molto letto ride, il giovane di liceo invece non ha difesa contro l’ignoranza di chi dovrebbe servirgli da modello e fatalmente, nello sforzo di inserirsi nell’élite della società, ne imiterà il linguaggio. Dunque userà tutte le brutture ad effetto, tutti i neologismi saccenti, tutti gli inglesismi storpiati che sente “ad alto livello”. Il nuovo arrivato sul palcoscenico della vita crede in buona fede che “si dica così”. Parlerà di “sàspens” e scriverà “suspence”, senza mai sospettare che gli inglesi non pronunciano e non scrivono in quel modo. Dunque la lingua si stravolge (“evolve”?) a tutta velocità, fino ad estraniarci dal nostro passato. L’italiano di Manzoni rischia di essere più lontano da noi di quanto il francese del Seicento sia per i francesi. Una volta i fiumi straripavano, poi hanno tracimato, attualmente, non volendo trasgredire la moda, esondano: straripa soltanto il conformismo.

Ormai gli innamorati della lingua corretta si riconoscono fra loro a piccoli segni, come congiurati: un semplice “appropriarsi qualcosa” invece di “appropriarsi di qualcosa” fa scoprire un fratello. L’uso scrupoloso del linguaggio è divenuto uno sport pressoché segreto e riservato a pochi, come la guida di automobili di formula uno. Una volta c’erano i gentleman driver, oggi ci sono gli eredi dei grandi dandy che si concedono l’eccentricità di non commettere errori.

Gianni Pardo, [email protected]

31 luglio 2014


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