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Libero Mercato e Capitalismo: le contraddizioni pagate sulla nostra pelle di Davide Amerio

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Nel libero mercato tanto decantato da economisti liberal, giunge dalla Germania la notizia di una nuova, pesante, grana per l’industria automobilistica tedesca [1]. Dopo lo scandalo del Dieselgate negli Stati Uniti, costato circa 20 miliardi di euro alla Wolkswagen, il settimanale tedesco “Der Spiegel” denuncia il “cartello” messo in atto dalle case automobilistiche tedesche (Volkswagen, Daimer, BMV, Audi e Porche) alle spalle dei clienti e alla faccia della concorrenza. La rilevazione nasce da una autodenuncia della Volkswagen che ha ammesso, il 4 luglio 2016, davanti alle autorità europee e tedesche, l’esistenza di questo cartello tra le aziende tedesche per ottenere vantaggi illegali alle spalle dei clienti.

Il settimanale “Economist” in una sezione speciale intitolata “The World If” [2], nella quale studiosi ipotizzano scenari economici e sociali domandandosi “cosa succederebbe se…”, e formulando idee sulle possibili conseguenze, si è domandato cosa potrebbe accadere se i confini politici del mondo venissero aboliti completamente. Ovvero se l’attuale piaga della emigrazione non troverebbe una sua “naturale” soluzione nell’abbattimento di qualsiasi barriera. L’ipotesi si fonda su due principi: il primo riporta alle legge di Okun, ovvero sulla valutazione del mancato PIL avendo a disposizione forza lavoro non impiegata; il secondo considera che un lavoratore impiegato in paesi avanzati è più produttivo che impiegarlo in paesi sotto sviluppati, al punto che gli “esperti” affermano “Fare i Nigeriani in Nigeria è economicamente insensato come fare i coltivatori in Antartide”.
Il ragionamento ipotizza che lo scenario proposto favorirebbe lo sviluppo del PIL mondiale nell’ordine dei 68mila miliardi di dollari. Per una mia modesta confutazione rimando al link in allegato. Qui, in casa di conoscitori dei fenomeni economici, non sfuggono certo le conseguenze di una proposta del genere.

Negli ultimi giorni la sentenza della Corte di Cassazione nei confronti di quella che era considerata “Mafia Capitale”[3], apre un’altra dolorosa pagina sulle carenze legislative del nostro paese. La derubricazione del reato di Mafia, pur confermando i numerosi reati commessi, e certificando il danno economico e amministrativo subito dalla città di Roma, dimostra come gli interessi criminali e le commistioni tra politica, criminali, faccendieri e imprenditori, siano sempre in evoluzione e come palesemente manchi la volontà politica di individuare specificamente le fattispecie di alcuni reati per agevolare il lavoro della magistratura e impedire il dilagare di queste pratiche.

Nelle ultime ore abbiamo appreso che un altro rampollo delle élite finanziarie nostrane, esce da una importante azienda come la Telecom Italia con una buonuscita di 25 milioni di euro. Sui dettagli dell’operazione rimando al preciso articolo di Fabio Lugano [4].

Questa breve carrellata di notizie, che potrebbe essere ben più ampia, induce a qualche considerazione sul fenomeno del “Libero Mercato” elevato troppo spesso a totem di verità assoluta e incontrovertibile, quale unico modello di sviluppo accettabile e credibile. Su questo argomento ha scritto eloquenti riflessioni il filosofo Diego Fusaro nel suo ultimo lavoro “Pensare altrimenti” (avrò modo di approfondire l’argomento).
La visione del libero mercato capitalistico come produttore di ricchezza e unico possibile modello economico post caduta del muro di Berlino del ’89, continua a cozzare pesantemente contro la realtà dei fatti.
In genere, a riguardo, i “liberal” fanno spallucce, indicando nella mancanza di regole certe la generazione di queste “devianze”. Ma le storie – come quella della Wolskwagen, – ci mostrano come la tendenza “naturale” delle imprese di una certa grandezza verta alla costruzione dei monopoli o di cartelli per aggirare le regole di quel “libero mercato” del quale essi si fanno, a parole, paladini e difensori.

Le complicità tra politica, la criminalità organizzata e certi imprenditori, inficia le fondamenta stesse del libero mercato e, a farne le spese, sono sempre, direttamente o indirettamente attraverso maggiore aggravio dei costi per lo stato, i cittadini che subiscono le vessazioni e tasse con palese calo della qualità dei servizi o, addirittura, la loro riduzione e soppressione.

Dall’Economist giunge un messaggio “pericoloso”: più che un abbaglio di sole sulla capa di qualche economista, la teoria delle libere frontiere sembra corrispondere a quella esigenza di “narrazione” culturale con la quale predisporre le masse a digerire gli interessi delle classi ricche che dominano i circuiti finanziari. Davvero ci dovremmo bere la storiella che con la transumanza di esseri umani tra le centinaia di milioni e il miliardo nei prossimi dieci anni (questo il calcolo effettuato dagli studiosi) sul pianeta si otterrebbe più benessere per tutti?

I continui esempi di amministratori di aziende (o banche) che godono di liquidazioni milionarie in barba ai risultati e in proporzioni esagerate e assolutamente non giustificate, sono uno schiaffo in faccia alle migliaia di lavoratori che creano materialmente la ricchezza di quelle aziende (non di rado finite a gamba all’aria proprio grazie all’incapacità di quegli stessi amministratori. Nonché degli utenti che pagano i servizi.

Anatole Kaletsky (*), scrive su Project Syndacate[5] un interessante intervento nel quale ricorda che il prossimo mese cadrà la ricorrenza del decimo anniversario della crisi globale che ha avuto inizio il 9 agosto del 2007, quando Banque National de Paris ha annunciato che il valore di alcuni dei suoi fondi erano “evaporati”. Il cuore del suo ragionamento verte a considerare come, non ostante la crisi che ha messo chiaramente in dubbio il dogma dell’infallibilità del libero mercato, sembra non esserci ancora una ipotesi di “nuova economia macroeconomica” che superi l’ideologia del fondamentalismo del mercato. La contro rivoluzione monetarista ha costruito questo dogma in antitesia all’economia Keynesiana che risultava inefficace nelle cure da mettere in atto verso le crisi inflazionistiche degli anni ’70. Questa controffensiva ci ha condotto via via ad uno spostamento nella distribuzione della ricchezza verso le classi più ricche a discapito delle altre classi lavoratrici, nonché alla riduzione dello stato sociale e alle privatizzazioni dei beni comuni. Teoricamente la giustificazione di queste politiche si basa sul principio delle compensazioni che si riverserebbero sulla società con beneficio per tutti. Ma, si domanda Kaletsky, cosa avviene se questo processo non si avvera?
“.. se il fondamentalismo del mercato blocca le politiche macroeconomiche espansive e impedisce la tassazione distributiva o la spesa pubblica, la resistenza populista al commercio, la deregolamentazione del mercato del lavoro e la riforma delle pensioni dovranno intensificarsi. Viceversa, se l’opposizione populista rende impossibili le riforme strutturali, questo incoraggia la resistenza conservatrice alla macroeconomia espansionistica”.

La questione diventa quindi quel “pensare altrimenti” suggerito da Fusaro. Immaginare un nuovo modello di società nel quale possano coesistere il libero mercato ma una adeguata redistribuzione della ricchezza e una reale giustizia sociale. Su questo aspetto il pensiero intellettuale borghese, per usare una espressione pasoliniana, è assai carente; molto più propenso ad indirizzare i propri sforzi nel creare quel pensiero unico, necessario per pilotare le masse, che preconizza e stabilisce l’impossibilità di pensare altro che non sia l’esistente.
P.P Pasolini scriveva che il difetto maggiore del “borghese” è che non riesce a immaginare altro al di fuori di sé. Non esiste per lui altra aspirazione nella vita – e questo secondo il suo punto di vista deve valere per tutti, – che il diventare borghese.
Difficile quindi cambiare paradigmi e modelli, se continuiamo ad affidare il “Potere” di formulare leggi e regolamenti a quelle “caste” che promuovo incessantemente se stesse e la propria, limitata, visione del mondo.

Davide Amerio

(1)

https://www.lesechos.fr/industrie-services/automobile/030460619467-lindustrie-automobile-allemande-ebranlee-par-un-nouveau-scandale-2103788.php

(2)
http://it.blastingnews.com/economia/2017/07/migranti-acciamoli-entrare-tutti-parola-di-economist-001860041.html

[3]

http://www.beppegrillo.it/2017/07/non_e_mafia_e_una_montagna_di_merda.html

[4]

PERCHE’ MI SEMBRANO ESAGERATI 25 MILIONI PER CATTANEO, E NON C’ENTRA IL MORALISMO

[5]

https://www.project-syndicate.org/commentary/replacement-market-fundamentalism-by-anatole-kaletsky-2017-07?utm_source=Project+Syndicate+Newsletter&utm_campaign=1e93941972-sunday_newsletter_23_7_2017&utm_medium=email&utm_term=0_73bad5b7d8-1e93941972-104752637

(*) Anatole Kaletsky is Chief Economist and Co-Chairman of Gavekal Dragonomics. A former columnist at the Times of London, the International New York Times and the Financial Times, he is the author of Capitalism 4.0, The Birth of a New Economy, which anticipated many of the post-crisis transformations of the global economy. His 1985 book, Costs of Default, became an influential primer for Latin American and Asian governments negotiating debt defaults and restructurings with banks and the IMF.

Davide Amerio


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