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L’ex commissario Bolkstein: MES e Fiscal Compact, alchimie per evitare il fallimento dell’Euro

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La versione integrale di un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano ed ampliato su l’AntiDiplomatico 

 

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Sulle cause della crisi dell’euro ritornerò in una prossima occasione. Qui vorrei invece affrontare un altro problema: i meccanismi introdotti nel tentativo di tamponare quelle asimmetrie insostenibili che sono state prodotte dalla moneta unica.

 
La prima constatazione da fare è che si è trattata di una gestione assolutamente antidemocratica, che ha bypassato pressoché completamente anche le istituzioni comunitarie. Tanto il cosiddetto Fiscal Compact, di cui mi occuperò in questo post, quanto il Mes, che abbiamo affrontato qui, sono infatti trattati internazionali e non di diritto dell’Unione Europea. Ma perché allora dopo che siamo entrati nell’euro perché ce lo chiedeva l’Europa, si è affrontata la crisi dell’euro lasciando fuori proprio l’Europa? Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona l’elaborazione e la revisione dei trattati prevede la consultazione e il coinvolgimento di un ampio numero di attori, compresi i Parlamenti nazionali e quello europeo. Perché si è deciso di non seguire la strada della revisione dei trattati e invece si è proceduto a fare due trattati intergovernativi? E’ del tutto evidente la volontà tecnocratica di gestire la crisi, riservando al Parlamento europeo un ruolo meramente ancillare. 
 
Il Fiscal Compact è stato addirittura approvato il 2 marzo del 2012 senza che il Parlamento di Bruxelles fosse neppure consultato. Sulla base di questa decisione, l’Italia ha firmato la resa incondizionata alla Germania, introducendo, nell’aprile 2012, l’obbligo di pareggio del bilancio in Costituzione e poi, nel luglio dello stesso anno, con il solo voto negativo della Lega, il MES. Nel caso della modifica costituzionale, la maggioranza bulgara conseguita ha perfino evitato il ricorso al referendum confermativo. Neanche su questo ci hanno permesso di esprimerci. 
 
La seconda constatazione è sulla bagarre abbastanza stucchevole che sta emergendo sulla mole di tagli cui l’Italia sarà costretta a partire dal 2015 per la partecipazione al Fiscal Compact. Con due articoli sul Fatto a firma Stefano Feltri e Mauro del Corno apprendiamo come l’esborso sarebbe tutto sommato gestibile per l’Italia e “solo” 5-7 miliardi di euro. La risposta più efficace a quei due articoli la trovate qui. Ma il problema è più generale e riguarda un’opera di mistificazione continua compiuta sull’opinione pubblica dai massimi organi di informazione sulla moneta unica. Quando avete un problema di salute siete chiaramente molto attenti a scegliere il medico in base alle sue competenze: se avete un problema ai denti ad esempio non andate da un chirurgo anche se è un Premio Nobel per la medicina, ma gli preferirete un dentista dal curriculum più contenuto. Il problema, sottolinea ironicamente Alberto Bagnai in un articolo sempre sul Fatto, è che con il termine “economista” rientrano gli studiosi degli ambiti più disparati della disciplina e ognuno si sente nel diritto di esprimere un’opinione sui diversi rami della materia, senza che le persone riescano a percepire le corrette competenze. Figuriamoci quando a parlarne non è chi di mestiere è economista. 
 
Per affrontare la questione, quindi, chiediamo aiuto a chi insegna politica economica e a chi ha affrontato a livello analitico la questione. Da un post dal suo blog Goofynomics, Alberto Bagnai ha compiuto l’analisi al momento più accurata riprendendo il testo del trattato del Fiscal Compact e ipotizzando un’applicazione per il 2015, a partire dalla situazione economica prevista per l’Italia a fine 2014 dal Fondo Monetario Internazionale, vale a dire un debito a 2119.3 miliardi di euro e un Pil a 1591.9 miliardi di euro (rapporto al 133.1%, cioè 73.1 punti sopra al 60%). Dato che il 60% del Pil è 955.2 miliardi, prosegue Bagnai, qualcuno ragiona tra lo scarto fra stock effettivo e desiderato – 2119.3-955.2=1164.1 – e quindi la correzione deve essere 1/20 di questo scarto, cioè 58 miliardi. Ma quello che deve diminuire di un ventesimo è il rapporto fra debito e Pil fra 2014 e 2015. Questo rapporto deve cioè scendere, fra 2014 e 2015, di 3.7 punti (un ventesimo di 73.1), scendendo da 133.1 nel 2014 a 129.5 nel 2015. Per capire quale sia l’entità della manovra richiesta bisogna vedere che cosa farebbe il rapporto in assenza di correzioni. Sempre secondo le previsioni del FMI, nel 2015 il debito aumenterebbe a 2148.4 miliardi, e il Pil a 1629.7, per cui il rapporto scenderebbe comunque a 131.8 (da 133.1). Questa diminuzione tendenziale è però di soli 1.3 punti, mentre il FC richiede una diminuzione di 3.7 per arrivare al valore obiettivo del rapporto, pari a 129.5. Se immaginiamo che il Pil del 2015 non sia toccato da eventuali manovre, conclude Bagnai, per raggiungere l’obiettivo in termini di rapporto bisognerà ritoccare al ribasso lo stock di debito di 38.4 miliardi di euro. Non i 50 paventati da molti, quindi, ma neanche i 5-7 di Feltri o Del Corno. L’Italia, considerando anche il vecchio Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) di cui il Mes è stato l’erede, ha già versato 46 miliardi di euro dei 125 miliardi previsti fino al 2017. Il debito pubblico, come ha ammesso lo stesso Saccomanni, è aumentato negli ultimi anni per finanziare questi strumenti ideati per salvare l’euro.
 
L’ultima constatazione è politica. Con l’introduzione del Fiscal Compact la Costituzione materiale del nostro paese è complessivamente mutata: l’Italia di oggi non è più una Repubblica democratica fondata sul lavoro, ma una dittatura fondata sull’euro e sul pareggio di bilancio. La battaglia contro il Fiscal Compact e il Mes è importante ma va combattuta principalmente a livello statale e non solo a Bruxelles. Possiamo, infatti, recedere da questi trattati senza riferirsi all’Ue – perché non sono trattati comunitari – ma prendendo a riferimento la Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 (in vigore dal 1980) che regola i trattati internazionali. I motivi su cui ci si può richiamare per il recesso sono molteplici, a partire dall’eccessiva onerosità delle prestazioni richieste e l’impossibilità palese di mantenere gli accordi presi. Tutto ciò è espressamente previsto dagli art. 60 e ss della suddetta Convenzione. L’obbligo di pareggio di bilancio e il rientro del debito nelle modalità previste dal Trattato di stabilità – ricordiamo il nostro debito dovrebbe essere ridotto al 60% del Pil in un ventennio – sono per noi insostenibili e dunque recedere unilateralmente dal Trattato sarebbe la decisione più normale da prendere. 
 
Ma è sufficiente recedere dal Trattato di stabilità per abrogare ciò che esso contiene? Purtroppo la risposta è in parte negativa. Abolire il Fiscal Compact non è infatti sufficiente. Per un verso l’obbligo di pareggio di bilancio è stato introdotto in Costituzione e quindi bisognerebbe rivederla nuovamente. Con tutti i partiti che in modo tragicomico dopo averlo votato da pochi mesi, sono ora pronti a ridiscuterlo in campagna elettorale si potrebbe trovare una maggioranza parlamentare per farlo o, almeno, smascherare l’ennesimo bluff di chi ha la responsabilità storica del dramma sociale in corso nel paese. Resterebbe, si dirà, la regola debito Pil non superiore al 60% prevista dal Fiscal Compact. Ora non c’è dubbio che quel criterio sia previsto, ma l’art.4 è formulato nel mondo seguente: “Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore di riferimento del 60% di cui all’articolo 1 del protocollo (n. 12) sulla procedura per i disavanzi eccessivi, allegato ai trattati dell’Unione europea, tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno come parametro di riferimento secondo il disposto dell’articolo 2 del regolamento (CE) n. 1467/97 del Consiglio, del 7 luglio 1997, per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi, come modificato dal regolamento (UE) n. 1177/2011 del Consiglio, dell’8 novembre 2011. L’esistenza di un disavanzo eccessivo dovuto all’inosservanza del criterio del debito sarà decisa in conformità della procedura di cui all’articolo 126 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea”.Cosa significa? Significa che i due regolamenti citati restano in vigore, in quanto antecedenti-precedenti, anche se l’Italia dovesse recedere unilateralmente dal Fiscal Compact. Ecco perché sarà importante che il nuovo Parlamento europeo, se riusciranno a imporsi le forze definite “populiste”, sollevi la legittimità di questi regolamenti. 
 
Il Mes e il Fiscal Compact sono due alchimie giuridico-finanziarie create per ritardare la fine inevitabile dell’euro. Se non vogliamo assistere alla beffa delle beffe, vale a dire che sia la Germania a staccare la spina dopo aver recuperato tutti i suoi crediti dai paesi del sud Europa – che nel frattempo hanno accettato la via della povertà, disoccupazione di massa e la rinegoziazione dei principali diritti sociali garantiti costituzionalmente – dobbiamo iniziare a pensare concretamente a un piano politico di Eurexit e smettere di utilizzare slogan come il “sogno” degli Stati Uniti d’Europa, degli eurobond  o dei trasferimenti monetari dalle regioni ricche a quelle povere. Opzioni che, del resto, Berlino non considera minimamente e sono totalmente anti-storiche per il periodo che stiamo vivendo. L’ex Commissario dell’Ue Frits Bolkstein ha dichiarato recentemente ad un convegno organizzato da Asimmetrie a Roma come “l’Unione monetaria è fallita”. E’ tempo per i 18 paesi della zona euro di prenderne atto e cercare la migliore via politica per uscire da questo “incubo” e salvare il resto del progetto europeo.

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