Attualità
L’embargo della Cina ai frutti di mare giapponesi per il rilascio delle acque di Fukushima potrebbe essere un grande autogoal
La decisione della Cina di vietare i prodotti acquatici giapponesi – dopo il controverso scarico delle acque di scarico nucleari di Fukushima avvenuto giovedì scorso – potrebbe ritorcersi contro Pechino, secondo gli analisti, che sottolineano i potenziali impatti sul settore ittico cinese.
La mossa serve anche a indebolire ulteriormente il già deteriorato commercio bilaterale dei due Paesi, poiché dimostra come essi possano diventare meno dipendenti l’uno dall’altro, anche se l’acquacoltura non riveste una grande importanza nel commercio sino-giapponese.
La decisione del Giappone di scaricare nell’Oceano Pacifico le acque reflue trattate della centrale nucleare di Fukushima ha fatto arrabbiare Pechino, portando al blocco immediato di tutti i prodotti ittici giapponesi.
“Chiaramente, Pechino sta rendendo molto visibile il suo disappunto con il divieto, anche se l’effetto sul Giappone non è noto o conoscibile a questo punto. La risposta della Cina sembra in parte legata ai sospetti esistenti nei confronti del Giappone”, ha dichiarato Chong Jia Ian, professore associato di scienze politiche presso l’Università Nazionale di Singapore. Nello stesso tempo però Pechino non ha contestato la certificazione del rilascio delle acque concello dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica, e per buoni motivi
“Le relazioni commerciali, soprattutto quelle relative ai beni, rimangono importanti, ma il Giappone si sta allontanando dal mercato cinese per ragioni commerciali e di gestione del rischio, mentre la Cina si concentra maggiormente sulla produzione e sul consumo interno”, ha affermato. “Sia la Cina che il Giappone potrebbero essere meno importanti l’uno per l’altro nel corso del tempo”.
Però il divieto di importazione di prodotti ittici da parte della Cina non è visto come una misura di grande impatto nei confronti del Giappone. “Al momento, non sono sicuro che l’acquacoltura sia così importante nel commercio sino-giapponese”, ha detto Chong. “Se Pechino volesse opporsi seriamente, potrebbe inviare un segnale più costoso riducendo o limitando l’importazione di macchinari, circuiti e automobili dal Giappone. Ciò danneggerebbe maggiormente il Giappone, con un costo maggiore per l’economia e i consumatori cinesi”.
Nonostante sia la principale destinazione dei prodotti ittici giapponesi, la Cina si rifornisce della maggior parte dei prodotti acquatici dall’Ecuador, seguito da Russia, Vietnam e India, secondo i dati del governo cinese, oltre ad avere una notevole produzione interna. Nel frattempo, secondo i dati delle dogane, l’anno scorso il valore del commercio complessivo tra Cina e Giappone è sceso del 3,7% a 357,4 miliardi di dollari. Il valore del periodo gennaio-luglio è sceso del 12% rispetto all’anno precedente, attestandosi a 183,3 miliardi di dollari.
Il Giappone è il quinto partner commerciale della Cina, ma rappresenta solo una piccola parte delle importazioni totali di prodotti ittici, considerando la sua enorme domanda. Quindi l’impatto della misura sarà in generale minimo.
Però la misura ha acceso una miccia che potrebbe minare gli stessi consumi da itticoltura cinese. Gli addetti ai lavori temono che il rilascio di acque reflue e il divieto non siano di buon auspicio per il consumo di frutti di mare e il pubblico potrebbe far calare il consumo di frutti di mare, indipendentemente dall’origine.
Un membro del personale della China Aquatic Products Processing and Marketing Alliance, che ha rifiutato di essere nominato a causa della sensibilità della questione. “Avrà sicuramente un impatto sull’industria della pesca e dell’acquacoltura. Anche alcune aziende nazionali ne risentiranno”, ha dichiarato. “Secondo quanto ho sentito… molte persone non mangeranno più frutti di mare, almeno nel breve periodo. È un segnale pericoloso per il settore se questa mentalità si diffonde”.
In una nota di ricerca di giovedì, BRIC Agricultural Information Technology, una società di consulenza con sede a Suzhou, a ovest di Shanghai, ha previsto un impatto di vasta portata sul settore della pesca e dell’acquacoltura cinese.
“La disponibilità del pubblico a consumare prodotti acquatici potrebbe essere influenzata, il traffico nei mercati dei frutti di mare delle città costiere potrebbe diminuire, mentre le vendite di tali prodotti crolleranno, insieme alla riduzione dei prezzi”, ha dichiarato.
Creando questa enfasi sullo scarico delle acque di Fukushima la Cina rischia di abbattere anche i consumi dei prodotti interni legati ai frutti di mare. Alla fine le acque circolano, e, anche se rilasciate in Giappone, arrivano in Cina. Perché i consumatori dovrebbero findarsi dei frutti di mare nazionali, quando quelli giapponesi sono bloccati? Il mare, alla fine, è tutto uno.
Per questi motivo la contestazione cinese allo scarico delle acque giapponesi non è arrivato a negare la pericolosità delle acque stesse: sarebbe stato un autogoal troppo evidente, ma nello stesso tempo la ricaduta sulla produzione ittica cinese potrebbe essere troppo forte.
La Cina ha ricevuto dal Giappone 1,937 miliardi di yuan (267 milioni di dollari) di prodotti acquatici tra gennaio e luglio, secondo i dati delle dogane cinesi. A luglio, le spedizioni dal Giappone sono state pari a 235 milioni di yuan, in calo di un terzo rispetto al mese precedente, a causa delle preoccupazioni sulla sicurezza degli alimenti. La ricaduta sui consumi interni cinesi potrebbe essere molto più forte, dato che la produzione di frutti di mare cinese nel 2022 ha sfiorato i 70 milioni di metri cubi.
In realtà le acque nel Pacifico si muovono in senso orario, quindi dal Giappone verso l’America, ma che ne sa il cinese medio di correnti oceaniche? Prima di tutti taglierà i consumi.
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