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Analisi e studi

Le robinsonate di una cosa in sé (di Giovanni Moretti)

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Se diceva che rende liberi, il lavoro, certo non la verità, non resta che credergli, e credere che dialettica e ricerca della verità siano ciò che Hegel ha preso a prestito un po’ dal presocratico filosofo del riso, così come ha fatto Karl Marx, scambiandola per conoscenza certa, e un po’ da quello che piange per la caducità delle cose e l’inconsistenza di ciò che è, naturalmente, nel senso metafisico, nel senso dell’essere. Popper diceva che “la metafisica è la fonte da cui rampollano le teorie delle scienze empiriche”, quelle che lo stagirico definiva come filosofia seconda. E infatti, a comiciare dal 1867, anno di pubblicazione de Il Capitale, per effetto induttivo, certo non poteva trattarsi di deduzione, quei rapporti di forza tra gruppi di potere, tra classi sociali e soprattutto quel capitalismo, che ancora non esistevano se non come noumeno di un isolatissimo Robinson Crusoe, sono nel tempo diventati, anzi, divenùti, proprio come Marx ha così minuziosamente descritto, storicamente e sociologicamente interpretato e anticipato. Quasi fosse un manuale d’uso, come Il Principe machiavelliano. Lo spoiler di un nuovo prodotto intellettuale. Un bignamino per generazioni future e contemporanee di fraintenditori, frotte di manipolatori e distese immense di imbecilli incapaci di pensiero autonomo.
Epperò, parafrasando proprio il pensatòre che non era affatto un filosofo, anzi citandolo praticamente (e non teoreticamente) alla lettera, “bisogna che la finiamo co’sti filosofi che descrivono e interpretano il mondo in mille modi diversi. Quel che c’è da fare è cambiarlo”. Marx, come anche Hegel, era semplicemente un eracliteo, la sua filosofia infatti non era sua ma quella del divenire. Il suo archè come del resto anche per Lutero era il fuoco, l’energia, la materia. Il mondo lo cambiano i filosofi e l’Oscuro l’ha cambiato, anzi, è rimasto com’era. Il capitalismo non è stato sconfitto. Al contrario, si è evoluto, anzi è storicamènte divenùto, correggendo e adattando sé stesso quasi fosse lui, in realtà, il Leviatano, e non lo Stato che avrebbe dovuto estinguersi per troppo capitalismo ma non si è estinto per niente, nemmeno e tantomeno acceleràndolo. Quel “general intellect” menzionato nel frammento delle macchine ha invece molto socialisticamente, keynesianamente utilizzato il capitalismo per arricchire almeno un po’ anche sé stesso, finché crisi del debito lo permette. Quel general intellect è, il capitalismo. Eh sì perché alla stregua di un volksgeist qualunque astrae e rende collettivo l’intelletto, lo spirito del singolo, fisico uomo semplice che robinsonianamente in quanto singolo è inattingibile al contesto del rapporto sociale, ed assume bisogni e soggettività propria, ontica e giuridica. Astrae il robinson, lo trascende ovvero lo aliena proprio come fosse spirito del pòppolo, ovvero proprio come la Sobornost dei pensatori ortodossi successivamente mediata dai bolscevichi. Marx il capitalismo lo ha postulato, descritto come si fa in un libretto d’istruzioni. Ciò che descrive, e facendolo costruisce, Marx, è il noumeno, l’idea a priori del capitalismo, che storicamente diviène.
“I positivisti, nella loro ansia di distruggere la metafisica, distruggono, con essa, la scienza della natura”, diceva, sempre Popper, che come Kant si poneva il problema di come un giudizio sintetico a priori possa sussistere e avere valenza gnoseologica. L’annichilimento della metafisica corrisponde infatti al capovolgimento di Marx del mondo capovolto di Hegel, quando dice che «Hegel non è da biasimare perché delinea l’essenza dello Stato moderno com’esso è, ma perché spaccia ciò che è per l’essenza dello Stato», il quale corrisponde al rovesciamento materialistico dello stesso pensatore prussiano mediato da Feuerbach, secondo cui l’essenza umana, la vita materiale dell’uomo, è creata dai suoi rapporti sociali. È quindi l’uomo, che crea lo Stato e non lo Stato etico di Hegel, l’uomo. Dunque, il capitale è una relazione sociale così come lo è la moneta, ma associare la proprietà popolare alla teoria statale, contrattualista, esogenista, autarchica, cartalista e nominalista, è un’ennesima perfetta antinomia, che per l’ennesima volta rappresenta l’eterno divenire di un’alienazione, proprio quella così ben descritta dal prussiano quando parla di alienazione del lavoro e locupletazione del plusvalore. È una relazione sociale anche il rapporto servo-padrone. Lo è sia il capitale, la finanza, che la moneta com’è oggi concepita e come la concepiva lo stesso pseudo-filosofo materialista di Treviri perché è sempre stata concepita così, prima e dopo di lui: è sia una relazione sociale che uno strumento che serve ad espropriare (più che altro il capitale è secondo Marx il risultato di codesta espropriazione, e comprende quel “lavoro cristallizzato” in plusvalore e “incorporato” nel valore del denaro). Tuttavia, è una relazione sociale anche la moneta intesa come oggetto sociale, come rapporto intersoggettivo (il primo a parlare di intersoggettività è stato, notare, Martin Buber) tra fasi di tempo, che non permetta l’espropriazione, che non sia cioè una relazione del tipo servo-padrone.
Siamo immersi nei marci postumi intellettuali di un’era ormai decaduta, post moderna, piena fino agli occhi di materialismo e neoidealismo, di ego trascendentale, di un surrogato, che sta a mezza via tra il materiale e l’ontico, della divinità, come peraltro ha descritto perfettamente Feuerbach, la sussunzione di un piano che da ontologico viene invece ridotto, ad ontico, contingente, storico, divenibile, materiale. Kafka questa cosa l’ha descritta benissimo e non solo ne Il processo. Nell’immaginario neo marxiàno, oramai, anche solo ipotizzare la proprietà popolare dei mezzi di produzione è divenuta apologia di un inaccettabile antropocentrismo assumendo che invece, ogni cosa ha valore sacrale intrinseco tranne l’uomo semplice, individuale anzi atomico, fisico, gesellianamente deperibile, non trasceso, a cui è riservata una sorta di dottrìna di gràzia della depravaziòne radicàle, una corruzione organicisticamente totale, solo parzialmente redenta, ridotta, a valore intrinseco nei suoi componenti, organi meccanico/atomistici

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Se diceva che rende liberi, il lavoro, certo non la verità, non resta che credergli, e credere che dialettica e ricerca della verità siano ciò che Hegel ha preso a prestito un po’ dal presocratico filosofo del riso, così come ha fatto Karl Marx, scambiandola per conoscenza certa, e un po’ da quello che piange per la caducità delle cose e l’inconsistenza di ciò che è, naturalmente, nel senso metafisico, nel senso dell’essere. Popper diceva che “la metafisica è la fonte da cui rampollano le teorie delle scienze empiriche”, quelle che lo stagirico definiva come filosofia seconda. E infatti, a comiciare dal 1867, anno di pubblicazione de Il Capitale, per effetto induttivo, certo non poteva trattarsi di deduzione, quei rapporti di forza tra gruppi di potere, tra classi sociali e soprattutto quel capitalismo, che ancora non esistevano se non come noumeno di un isolatissimo Robinson Crusoe, sono nel tempo diventati, anzi, divenùti, proprio come Marx ha così minuziosamente descritto, storicamente e sociologicamente interpretato e anticipato. Quasi fosse un manuale d’uso, come Il Principe machiavelliano. Lo spoiler di un nuovo prodotto intellettuale. Un bignamino per generazioni future e contemporanee di fraintenditori, frotte di manipolatori e distese immense di imbecilli incapaci di pensiero autonomo.

Epperò, parafrasando proprio il pensatòre che non era affatto un filosofo, anzi citandolo praticamente (e non teoreticamente) alla lettera, “bisogna che la finiamo co’sti filosofi che descrivono e interpretano il mondo in mille modi diversi. Quel che c’è da fare è cambiarlo”. Marx, come anche Hegel, era semplicemente un eracliteo, la sua filosofia infatti non era sua ma quella del divenire. Il suo archè come del resto anche per Lutero era il fuoco, l’energia, la materia. Il mondo lo cambiano i filosofi e l’Oscuro l’ha cambiato, anzi, è rimasto com’era. Il capitalismo non è stato sconfitto. Al contrario, si è evoluto, anzi è storicamènte divenùto, correggendo e adattando sé stesso quasi fosse lui, in realtà, il Leviatano, e non lo Stato che avrebbe dovuto estinguersi per troppo capitalismo ma non si è estinto per niente, nemmeno e tantomeno acceleràndolo. Quel “general intellect” menzionato nel frammento delle macchine ha invece molto socialisticamente, keynesianamente utilizzato il capitalismo per arricchire almeno un po’ anche sé stesso, finché crisi del debito lo permette. Quel general intellect è, il capitalismo. Eh sì perché alla stregua di un volksgeist qualunque astrae e rende collettivo l’intelletto, lo spirito del singolo, fisico uomo semplice che robinsonianamente in quanto singolo è inattingibile al contesto del rapporto sociale, ed assume bisogni e soggettività propria, ontica e giuridica. Astrae il robinson, lo trascende ovvero lo aliena proprio come fosse spirito del pòppolo, ovvero proprio come la Sobornost dei pensatori ortodossi successivamente mediata dai bolscevichi. Marx il capitalismo lo ha postulato, descritto come si fa in un libretto d’istruzioni. Ciò che descrive, e facendolo costruisce, Marx, è il noumeno, l’idea a priori del capitalismo, che storicamente diviène.

“I positivisti, nella loro ansia di distruggere la metafisica, distruggono, con essa, la scienza della natura”, diceva, sempre Popper, che come Kant si poneva il problema di come un giudizio sintetico a priori possa sussistere e avere valenza gnoseologica. L’annichilimento della metafisica corrisponde infatti al capovolgimento di Marx del mondo capovolto di Hegel, quando dice che «Hegel non è da biasimare perché delinea l’essenza dello Stato moderno com’esso è, ma perché spaccia ciò che è per l’essenza dello Stato», il quale corrisponde al rovesciamento materialistico dello stesso pensatore prussiano mediato da Feuerbach, secondo cui l’essenza umana, la vita materiale dell’uomo, è creata dai suoi rapporti sociali. È quindi l’uomo, che crea lo Stato e non lo Stato etico di Hegel, l’uomo. Dunque, il capitale è una relazione sociale così come lo è la moneta, ma associare la proprietà popolare alla teoria statale, contrattualista, esogenista, autarchica, cartalista e nominalista, è un’ennesima perfetta antinomia, che per l’ennesima volta rappresenta l’eterno divenire di un’alienazione, proprio quella così ben descritta dal prussiano quando parla di alienazione del lavoro e locupletazione del plusvalore. È una relazione sociale anche il rapporto servo-padrone. Lo è sia il capitale, la finanza, che la moneta com’è oggi concepita e come la concepiva lo stesso pseudo-filosofo materialista di Treviri perché è sempre stata concepita così, prima e dopo di lui: è sia una relazione sociale che uno strumento che serve ad espropriare (più che altro il capitale è secondo Marx il risultato di codesta espropriazione, e comprende quel “lavoro cristallizzato” in plusvalore e “incorporato” nel valore del denaro). Tuttavia, è una relazione sociale anche la moneta intesa come oggetto sociale, come rapporto intersoggettivo (il primo a parlare di intersoggettività è stato, notare, Martin Buber) tra fasi di tempo, che non permetta l’espropriazione, che non sia cioè una relazione del tipo servo-padrone.

Siamo immersi nei marci postumi intellettuali di un’era ormai decaduta, post moderna, piena fino agli occhi di materialismo e neoidealismo, di ego trascendentale, di un surrogato, che sta a mezza via tra il materiale e l’ontico, della divinità, come peraltro ha descritto perfettamente Feuerbach, la sussunzione di un piano che da ontologico viene invece ridotto, ad ontico, contingente, storico, divenibile, materiale. Kafka questa cosa l’ha descritta benissimo e non solo ne Il processo. Nell’immaginario neo marxiàno, oramai, anche solo ipotizzare la proprietà popolare dei mezzi di produzione è divenuta apologia di un inaccettabile antropocentrismo assumendo che invece, ogni cosa ha valore sacrale intrinseco tranne l’uomo semplice, individuale anzi atomico, fisico, gesellianamente deperibile, non trasceso, a cui è riservata una sorta di dottrìna di gràzia della depravaziòne radicàle, una corruzione organicisticamente totale, solo parzialmente redenta, ridotta, a valore intrinseco nei suoi componenti, organi meccanico/atomistici.

Giovanni Moretti

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