Politica
L’ACCORDO CON TEHRAN, UN’INCOGNITA
La bomba atomica in mano ad un Paese – come l’Iran – che dichiara di volerne distruggere un altro sarebbe preoccupante in qualunque caso. Ma se la vittima designata – Israele – è a sua volta in possesso della bomba atomica, i sentimenti possono prendere direzioni opposte. Infatti, se l’aggressore tiene all’incolumità dei propri cittadini, ciò potrebbe frenarne l’audacia e rendere la situazione tranquillizzante. Se viceversa si fa l’ipotesi che l’attaccante sia demente e criminale, e cioè che non si curi dei milioni di cittadini uccisi dalla rappresaglia dell’aggredito, la preoccupazione diviene angoscia e sale alle stelle. Né vale dire che tutto ciò è inverosimile. Non soltanto ciò che è ipotizzabile è purtroppo anche possibile; non soltanto – secondo la legge di Murphy – ciò che è possibile si verifichi, una volta o l’altra si verificherà; ma in un certo senso tutto ciò si è già verificato con Hitler. L’ottimismo incondizionato è fuor di luogo.
Una guerra a colpi di bombe atomiche è spaventosa solo a pensarci. E bisogna anche mettere in conto che Israele potrebbe forse rispondere non con bombe atomiche convenzionali, ma con bombe all’idrogeno, rispetto alle quali il modello “Hiroshima” è poco più di un petardo. Stiamo parlando di una tragedia di proporzioni inimmaginabili, ma non del tutto inverosimili. Se gli israeliani temessero realmente di essere uccisi a milioni, gli iraniani dovrebbero prepararsi a morire a decine di milioni. Sin dalla fondazione, la filosofia di quel piccolo Paese è stata che “la caccia all’ebreo non è più gratuita”. E se gli ebrei hanno saputo difendersi con le unghie e con i denti nel ghetto di Varsavia, figurarsi mentre dispongono di armi nucleari. Sono cose che a Tehran sanno benissimo.
Ora si annuncia la “quasi conclusione” di negoziati che dovrebbero avere un doppio effetto: la fine delle sanzioni imposte all’Iran, e la sua rinuncia alla bomba nucleare. E tutti esultano. Tutti, naturalmente, salvo Israele, i repubblicani americani ed altri ancora. Ma hanno ragione i contenti o gli scontenti? La risposta è: chissà. E chiunque crede di saperlo farebbe bene a ricordarsi che la maggior parte dei profeti ha fatto una brutta fine.
L’Iran è maestro di instancabili negoziati da bazar e – come ogni altro Paese – è privo di scrupoli. Se per caso scoprisse che gli conviene violare gli accordi sottoscritti non se ne priverebbe certo. Per giunta, secondo la dottrina musulmana, non ha il dovere della lealtà nei confronti degli infedeli. Il territorio non ancora divenuto maomettano è dar el Harb, la terra della guerra, e il progetto rimane ancora e sempre quello dell’Ottavo Secolo: la conquista con le armi dell’orbe terracqueo e la conversione forzata dei vinti. Si può ragionevolmente dire tutto il male che si vuole, di questo atteggiamento mentale, ma il giudizio severo e la diffidenza incontrano un limite invalicabile: anche ad essere contro il negoziato, c’è un’alternativa?
Mentre diffida e protesta, Israele sa benissimo che un’azione militare contro Tehran è peggio che pericolosa: è tecnicamente inefficace. Non si possono azzerare le sue capacità di produzione dell’atomica con un raid, come avvenne con “Osirak”, perché le sue installazioni nucleari più importanti sono nascoste all’interno di montagne. Nemmeno una bomba atomica le potrebbe distruggere. Né si può occupare il Paese a tempo indeterminato. Dunque l’alternativa non era “il negoziato o la guerra”, ma il “negoziato o niente”. Ma i risultati che saranno raggiunti a giugno, quando si firmeranno concretamente gli accordi, sono accettabili?
In questo campo regna la più totale incertezza. Per giudicare un simile trattato bisognerebbe avere una competenza tecnica – in materia di produzione di armi nucleari e di possibili controlli – che certo non appartiene al commentatore politico. Inoltre, in questo genere di negoziati è molto più importante ciò che è stato detto dietro le porte chiuse che ciò che viene detto al grande pubblico. Si annuncia la “conclusione positiva delle trattative” e tanto basta perché la gente scenda a far festa per le strade ed applaudire i governanti. Ma la realtà è spesso molto più complessa di quanto potrebbe capire l’estraneo.
La conclusione non può essere molto incoraggiante. Sappiamo poco della questione dal punto di vista tecnico; sappiamo poco di ciò su cui si sono effettivamente accordati a Ginevra; sappiamo ancor meno dell’efficacia dei futuri controlli sul rispetto degli accordi e non sappiamo nulla di ciò che conseguirebbe alla constatazione che essi sono stati violati. Forse, l’unica realistica speranza è che a Tehran siano abbastanza ragionevoli per accettare quel folle “equilibrio del terrore” (Mad, “pazzo”, ma anche acronimo di mutual assured destruction) che ha salvato dal disastro, per decenni, Stati Uniti e Unione Sovietica.
Gianni Pardo,
3 aprile 2015
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