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Analisi e studi

La vera identità italiana è nella lingua. Come nasce la nostra letteratura e perché siamo ancora “Figli del Duecento” (di Giuseppe PALMA)

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Qui di seguito il mio saggio breve sulla nascita della lingua e della letteratura italiana, pubblicato in Appendice al mio ultimo libretto di poesie “Spicchi di mela verde” (Gds, dicembre 2019). Buona lettura.

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Forse non tutti sanno che la nostra lingua e la nostra letteratura nascono principalmente da due volgari, cioè da due dialetti, il toscano e il siciliano, con forte preminenza del primo. Anche se tutto ha inizio in Umbria con Il Cantico delle creature (Laudes Creaturarum) di San Francesco d’Assisi, composto nel 1224 o nel 1226 e ritenuto il primo scritto al quale possa farsi riferimento per datare la nascita della letteratura italiana («Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature […]»).
In Umbria un contributo fondamentale lo fornisce anche Jacopone da Todi, giurista e poi frate, ricordato per Il Pianto della Madonna e le Laude. San Francesco nella prima metà del Duecento, Iacopone nella seconda metà.
Un successivo esperimento linguistico e letterario, sempre in volgare e che precede i fiorentini (siamo nella seconda metà del Duecento), si manifesta nel Nord-Italia con Uguccione da Lodi (forse originario di Cremona) e Giacomino da Verona, entrambi poeti medievali che scrivono in volgare veneto, un volgare “rozzo” ma efficace per lessico e dialoghi. Di Uguccione ricordiamo il poema Libro (prima del 1265), mentre di Giacomino da Verona i poemetti Babilonia, città infernale e La Gerusalemme celeste (verso il 1275).
Antecedente ad Uguccione e Giacomino è Gherardo Patecchio di Cremona, notaio e poeta lombardo che scrive il poemetto ad argomento biblico Lo Splanamento de li proverbi de Salomone, risalente probabilmente alla prima metà del Duecento. Siamo pur sempre nell’ambito della poesia volgare religiosa, dove il Cristianesimo – tanto per la poesia quanto per la pittura – è l’indiscusso comune denominatore.

Ancor prima di arrivare a Firenze occorre passare dalla Sicilia, dove Cielo d’Alcamo rappresenta il pioniere del volgare isolano. Cielo (o Ciullo), che probabilmente fu giullare di Corte, è ricordato per l’arte giullaresca e per l’unica sua opera a noi pervenuta, Rosa fresca aulentissima (composta tra il 1231 e il 1250), in volgare a base siciliana con vistose influenze continentali (soprattutto toscane). Ma l’esperimento letterario siciliano più importante, al quale Cielo d’Alcamo è parallelo, è la Magna Curia di Federico II di Svevia, una Corte di letterati, funzionari e artisti di vario genere che stupor mundi volle creare attorno a sé provvedendo al loro completo sostentamento economico. Federico, si sa, fu un grande Mecenate. All’interno della Magna Curia la “Scuola Poetica Siciliana”, di cui facevano parte soprattutto i tre poeti successivamente citati da Dante: Jacopo da Lentini (notaio e poeta di Lentini, in provincia di Siracusa, l’ideatore del Sonetto che Dante chiamerà «l’ Notaro»), Guido delle Colonne (forse messinese o romano, comunque giudice a Messina) e Rinaldo d’Aquino (falconiere avellinese). Della scuola di Federico anche Pier delle Vigne (di Capua, provincia di Caserta), Percivalle Doria (genovese o forse di Terra d’Otranto, condottiero e vicario generale di Manfredi), Jacopo Mostacci, Arrigo Testa (entrambi probabilmente isolani, ma minori) e lo stesso Imperatore. Il periodo di maggiore attività letteraria è la prima metà del Duecento, fino alla morte di Federico (1250), ma continuerà anche successivamente – con intensità minore – col figlio Manfredi, sconfitto e morto nella battaglia di Benevento del 1266 contro Carlo I d’Angiò (passaggio dagli Svevi agli Angioini).

Dante ricorderà la morte di Manfredi nella Divina Commedia (Purgatorio, Canto III, vv. 103-145):

«[…] Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso […]
Poi sorridendo disse: Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice […]»

Ed eccoci giunti ai fiorentini. Sul manifesto poetico del bolognese Guido Guinizzelli, Al cor gentil rempaira sempre amore, nasce Il Dolce Stil Novo, la “Scuola Poetica Fiorentina” di cui fanno parte Dante Alighieri, Guido Cavalcanti (che fu capo-scuola), Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, Gianni Alfani e Cino da Pistoia, preceduti da Brunetto Latini, ritenuto uno dei più illustri maestri di poetica dell’epoca ma non rientrante nel Dolce Stil Novo. Tutti appartenenti alla media borghesia toscana (Dante era iscritto all’ordine dei medici e speziali mentre Lapo era notaio e Cino giurista), decidono di ritagliarsi un ruolo di primo piano nella società del tempo e lo fanno proprio attraverso la letteratura, in primo luogo con la poesia in volgare, cioè nella lingua parlata dal popolo (che non conosceva la lingua ufficiale, il latino) ma raffinata e resa aulica. Saranno loro gli “sviluppatori” del Dolce Stil Novo, la corrente letteraria che va dal 1280 al 1310 e dalla quale nascerà la lingua italiana. Uno stile di scrittura aulico e illustre, metricamente perfetto in punto poetico, tutto centrato sull’Amore. Ma in volgare, non in latino.

Questi ragazzi scrivono, studiano, chiacchierano di tutto e su tutto. Se noi oggi abbiamo ancora un minimo di rispetto e di galanteria nel lessico e nello scritto quando ci rivolgiamo ad una signora, lo dobbiamo anche al “settebello” del Dolce Stil Novo. Può sembrare una provocazione, ma in parte è così. Non a caso la caratteristica principale del Dolce Stil Novo non è più la religione (lo è ancora, ma non in maniera predominante), bensì l’Amore. L’Amore per la Donna amata, elevata al massimo livello con la Divina Commedia nell’ultimo Canto del Paradiso, vale a dire con la preghiera di San Bernardo alla Vergine, riferibile anche alla Donna amata: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio, […]».
E’ sul finire del Duecento che nasce la prima opera (libraria) della letteratura italiana, La Vita Nova di Dante, scritta per amore (platonico) nei confronti di Beatrice Portinari, morta giovanissima nel 1290. È il primo libro della nostra letteratura (siamo intorno al 1293-94). Non il primo scritto poetico, essendo questo – come si è già evidenziato in precedenza – Il Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi (in volgare umbro).

De La Vita Nova il sonetto più famoso, e che tutti ricordano, è Tanto gentile e tanto onesta pare:

«Tanto gentil e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi si’ piacente a chi la mira,
che da’ per li occhi una dolcezza al core,
che ‘ntender non la puo’ chi no la prova;

e par che de la sua labbia si mova
uno spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira».

Dante contribuirà in modo determinante alla nascita della lingua italiana anche (e soprattutto) attraverso le opere successive a La Vita Nova, vale a dire con La Commedia (1304-1321) e Il Convivio (1304-1307), entrambe in volgare, oltre che con il De vulgari eloquentia (1303-1305), scritta in latino. E’ con quest’ultima che il Sommo Poeta traccia le quattro caratteristiche fondamentali che dovrebbe avere una lingua nazionale (illustre, aulica, cardinale, curiale), e che lo inducono alla conclusione che il volgare comprendente tutti e quattro questi elementi è solo il fiorentino, anche se da inglobare con alcuni aspetti del volgare siciliano vista l’indiscutibile importanza contributiva della Magna Curia federiciana.

La corrente del Dolce Stil Novo termina sostanzialmente con la morte dell’Alighieri (1321), ma troverà sviluppo ulteriore – seppur con sensibili differenze – con Francesco Petrarca, di Arezzo, la cui opera più importante, Il Canzoniere, è scritta in volgare ed è tutta centrata sull’amore (platonico) per Laura de Noves. A differenza di Dante, che in vita fu perseguitato politicamente perdendo praticamente tutti i suoi averi, Petrarca fu invece “poeta di corte”, una sorta di “poeta ufficiale” (incoronato con la foglia di alloro in Campidoglio per mano del re di Napoli Roberto d’Angiò l’8 aprile 1341), il precursore dell’Umanesimo letterario e filosofico in tutta Europa. Contemporaneo di Petrarca è Giovanni Boccaccio, di Certaldo (Comune limitrofo a Firenze), che darà vita alla narrativa italiana con la tipizzazione dei racconti popolari attraverso il genere letterario della novella. Nell’arco di circa mezzo secolo il medioevo italiano ha conosciuto (solo in Toscana) scrittori come Dante, Petrarca e Boccaccio, le “Tre Corone” della nostra letteratura.

Noi, ancora oggi, parliamo pressappoco la lingua di Dante, ben poco è mutato da allora. Si provi a leggere La Divina Commedia; alcuni versi potrebbero essere stati scritti anche ai giorni nostri, col nostro modo di scrivere e di parlare («la bocca mi baciò tutto tremante» con cui Francesca da Rimini racconta il bacio di Paolo Malatesta nel V° Canto dell’Inferno è ad esempio un endecasillabo assolutamente attuale). Si provi a leggere invece un testo in francese o in tedesco del XIII° secolo, sono lingue completamente differenti rispetto a quelle attuali.
L’italiano no. La lingua italiana ha sfidato i secoli ed è rimasta – seppur con pregnanti mutamenti formali e sostanziali – quella del Duecento. Noi siamo ancora quelli lì, possiamo dire di essere “Figli del Duecento”. Si provi a leggere il sonetto S’i’ fosse foco del poeta senese Cecco AngiolieriS’i’ fosse foco, ardere’ il mondo; / s’i’ fosse vento, lo tempestarei; / s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; / s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo […]»); al di là delle ovvie ed evidenti differenze rispetto alla scrittura dei giorni nostri, dal punto di vista lessicale sembra scritto oggi. E’ pressappoco la stessa lingua che parliamo noi contemporanei.
Insomma, la lingua e la letteratura del Duecento sono il più grande dono che abbiamo ricevuto in eredità dai nostri Padri, è la nostra identità di italiani che nessuno potrà estirparci. Così come l’Europa, che non è quella delle banche, dei vincoli di bilancio e dei cambi fissi, ma quella dell’Umanesimo del Petrarca.

Giuseppe PALMA

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(Il saggio breve sopra pubblicato è tratto dall’Appendice al mio libretto di poesie “Spicchi di mela verde“: https://www.amazon.it/Spicchi-mela-verde-Letteratura-italiana/dp/8867829912/ref=mp_s_a_1_1?keywords=spicchi+di+mela+verde+giuseppe+Palma&qid=1578039234&sr=8-1

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(Ladri di democrazia. La crisi di governo più pazza del mondo, di Paolo Becchi e Giuseppe Palma, Giubilei Regnani editore: http://www.giubileiregnani.com/libri/ladri-di-democrazia/)

 

 

 


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