Energia
La “Transizione Verde” sbatte contro i costi: Ørsted in perdita record e taglia 2000 posti
Il colosso dell’eolico Ørsted annuncia perdite shock per 262 milioni e taglia 2.000 posti. La crisi del settore tra inflazione, alti tassi di interesse e l’opposizione politica negli USA frena la transizione.

Il vento, almeno quello finanziario, ha smesso di soffiare a favore di Ørsted. Il colosso danese, universalmente noto come il più grande sviluppatore mondiale di energia eolica offshore, ha presentato i conti del terzo trimestre 2025. I numeri sono tutt’altro che “verdi”.
L’azienda ha riportato una perdita secca di 262 milioni di dollari (1,7 miliardi di corone danesi). Un tonfo notevole, se confrontato con l’utile di 796 milioni di dollari registrato nello stesso trimestre del 2024.
Cosa ha inceppato la macchina apparentemente perfetta della transizione energetica? Il colpevole principale sono le “svalutazioni” (impairment losses). Queste perdite contabili, dovute alla revisione al ribasso del valore degli asset, sono schizzate del 519%, raggiungendo i 240 milioni di dollari solo nel periodo luglio-settembre. Il 2025 si sta rivelando un annus horribilis per l’azienda.
Intando le azioni precipitano, con un valore che è frazionale rispetto a quello di alcuni anni fa:

Azioni Orsted , da Tradingeconomics
La tempesta perfetta sull’eolico offshore
Ørsted, e l’intero settore, sta navigando in acque agitate. I problemi non arrivano da una sola direzione, ma da una combinazione letale di fattori economici e politici:
- Inflazione e Tassi d’Interesse: L’aumento dei costi delle materie prime e, soprattutto, l’incremento del costo del denaro (alti tassi di interesse) hanno fatto esplodere i costi di realizzazione dei progetti. Le proiezioni di redditività fatte solo due anni fa sono ora carta straccia.
- Venti contrari dagli USA: Negli Stati Uniti, l’Amministrazione Trump (il testo è ambientato nel 2025) sta attivamente ostacolando la costruzione di nuovi parchi eolici. Un esempio su tutti è il progetto “Revolution Wind” da 704 MW, già completamente autorizzato al largo di Rhode Island, che ora affronta blocchi politici.
La Cura (amara): Tagli e Aumenti di Capitale
La reazione del management è stata inevitabile. Nonostante Ørsted abbia appena completato una massiccia operazione per raccogliere fondi freschi dagli azionisti (un rights issue da 9,35 miliardi di dollari), ha dovuto annunciare un drastico piano di ristrutturazione.
L’azienda taglierà 2.000 posti di lavoro entro il 2027. Si tratta di circa un quarto dell’intera forza lavoro. Una mossa definita necessaria per “gestire i rischi” e “rafforzare la struttura del capitale”.
L’amministratore delegato, Rasmus Errboe, cerca di mantenere la barra dritta, affermando che “il nostro obiettivo principale è continuare a realizzare il nostro piano industriale” per rimanere leader in Europa.
Tuttavia, la vicenda Ørsted solleva un velo pesante sulle narrazioni trionfalistiche della transizione energetica: senza una solida sostenibilità economica e un contesto politico stabile, anche i giganti “verdi” rischiano di affondare sotto il peso dei loro stessi costi.
Domande e risposte
Perché un’azienda “verde” come Ørsted perde così tanti soldi? Le perdite non derivano dalla mancanza di domanda di energia, ma dall’aumento spropositato dei costi. L’inflazione sulle materie prime e, soprattutto, gli alti tassi di interesse hanno reso la costruzione di questi giganteschi impianti molto più costosa del previsto. L’azienda è stata costretta a “svalutare” i progetti, cioè ad ammettere contabilmente che valgono meno di quanto si pensava, generando perdite. A questo si aggiungono le incertezze politiche, come gli ostacoli posti dall’amministrazione Trump negli USA.
I tagli al personale basteranno a salvare l’azienda? I tagli di 2.000 posti (un quarto del totale) sono una misura drastica per ridurre i costi operativi fissi e tentare di stabilizzare i conti. È una mossa per rassicurare gli investitori dopo la pesante perdita e il recente aumento di capitale. Tuttavia, questi tagli non risolvono i problemi esterni: i costi di costruzione e i tassi d’interesse restano alti, e l’incertezza normativa negli USA permane. È una cura per i sintomi, non per la causa principale della crisi.
Questa crisi di Ørsted segna la fine dell’eolico offshore? No, ma segna probabilmente la fine della sua “età dell’oro”, caratterizzata da costi in calo e ampio supporto politico. Il settore sta affrontando la sua prima, seria crisi di crescita. Dimostra che la transizione energetica non è una marcia trionfale, ma un processo industriale complesso e costoso, vulnerabile ai cicli economici e politici. Le aziende dovranno ora dimostrare di essere redditizie anche in un contesto di tassi di interesse normalizzati e senza il supporto incondizionato dei governi.








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