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La TFP (produttività totale dei fattori) potrebbe non essere una vera misura di produttività. Lo scontro fra teoria classica ed eterodossa. (di Marco Biagetti)

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La produttività totale dei fattori (TFP) è di solito studiata perché funzionale alle analisi basate sulla funzione di produzione. Quando si parla di problemi della TFP, si pensa essenzialmente a problemi di aggregazione di beni capitali. Tuttavia, una visione eterodossa della letteratura economica, evidenzia il fatto che la TFP non sia assolutamente una vera misura della produttività. Partendo dalla seguente funzione Cobb-Douglas, abbiamo:

Y = A(K1-α)Nα (1)

Log-linearizzando e derivando rispetto al tempo otteniamo:

dY/Y=(1-α)dK/K+ αdN/N+dA/A (2)

dove alfa è la quota del salario sul reddito nazionale. Solow suggerì che il residuo (dA/A) fosse l’effetto combinato dell’incremento della TFP. Una sorta d’incremento dell’efficienza dovuto, essenzialmente, al progresso tecnico. Ora si consideri l’identità del reddito che per definizione ci dice che il reddito al netto delle imposte è composto dalla remunerazione del capitale e del lavoro. Abbiamo quindi:

Y = rK + wN (3)

I problemi di aggregazione dei beni capitale che erano stati posti in evidenza dagli sraffiani1 e in seguito da Garegnani2 qui non c’entrano. Qui i dati non riflettono un costrutto teorico, come nel caso della funzione di produzione, ma un’identità contabile. La derivata totale dell’identità (3) è la seguente:

dY = rdK + wdN + Kdr + ndW (4)

Dividendo per Y, sapendo che r=R/K e che k=K/Y e n=N/Y, si ottiene:

dY/Y=RdK/KY+wNdN/NY+kdr+ndw (5)

Si noti che i primi due termini possono essere riscritti utilizzando la notazione R/Y=(1-α) e wN/Y=α, giungendo alla seguente equazione:

dY/Y = (1-α)dK/K+αdN/N+kdr+ndw (6)

Dal momento che la variazione del residuo di Solow (dA/A) è ottenibile dalla formula (2) e comparando questa con la (6) si vede subito che:

dA/A=kdr+ndw (7)

Conseguentemente la TFP-residuo di Solow non è affatto una misura di produttività ma semplicemente una media dei tassi di crescita dei profitti e dei salari. L’utilizzo della misura di produttività nell’analisi della crescita dovrebbe essere ristretto solo a quella del lavoro, come mostrato da vari autori fra cui Felipe e McCombie (2003).

La teoria marginalista ortodossa è ben al corrente di questa critica cui però non ha dato mai peso. La risposta che viene fornita è la seguente: la teoria di Solow è teoria, incompleta ed imperfetta ma teoria. Questa identità contabile non lo è. Insomma, questa visione alternativa non ha mai convinto nessuno del mainstream. Una volta che – a detta della teoria classica – sia possibile misurare il capitale K indipendentemente dal suo saggio di remunerazione r, allora è anche possibile scomporre il tasso di crescita del PIL in una parte dovuta alla quantità di fattori della produzione (i due primi termini della (6)) ed una parte da essi indipendente (l’ultimo termine della (2) e gli ultimi due della (6)). Per definizione dunque, l’ultima parte implica una variazione (miglioramento o peggioramento) della funzione di produzione, dove la “tecnologia” include tutto ciò che influisce sulla massima produzione raggiungibile a date quantità di fattori produttivi a disposizione. Gli economisti mainstream dicono in altre parole che kdr+ndw non è nient’altro che un altro modo per definire il residuo di Solow (dA/A).

Quindi La TFP può esser misurata, anche se non perfettamente, come può essere misurata non perfettamente la quota profitti r e la variazione dello stock di capitale dK. Insomma gli economisti del mainstream non credono che si misuri una quantità connessa al conflitto distributivo ma una “cosa” che è relazionata alla produttività e alla tecnologia.

Nella letteratura economica eterodossa invece il modello di Solow o qualsiasi altro modello basato sulla funzione di produzione non stima tale funzione (e quindi non misura una particolare produttività), bensì le identità (5) e (6). Questo significa che i salari possono salire (scendere) e i profitti possono scendere (salire) senza che vi siano rilevanti interconnessioni con la produttività.

Queste non sono questioni di lana caprina ma hanno ripercussioni pesanti anche nella vita dei cittadini. Anzitutto proprio sul conflitto di classe fra salari (e redditi da lavoro autonomo) e profitti. Sraffa pensava addirittura che il saggio del profitto fosse determinato esogenamente dal tasso d’interesse della banca centrale (e a pensare a tutte le misure convenzionali e non messe in campo dalla BCE e dalle altre Banche centrali in questi anni, si capisce che forse l’economista italiano non avesse tutti i torti). Inoltre, dalla funzione di produzione (con TFP al suo interno) dipendono i calcoli della produzione potenziale, dell’output gap, della situazione del bilancio strutturale, ovvero quello depurato dall’effetto del ciclo economico e delle misure una tantum, ormai arcinoto a livello UE perché unità di misura per verificare il raggiungimento del cosiddetto Obiettivo di medio termine.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Felipe L., McCombie J.S.L., 2003. “Some methodological problems with the neoclassical analysis of the East Asian miracle”, Cambridge Journal of Economics, volume 27, Issue 5, 1 September, 695–721, https://doi.org/10.1093/cje/27.5.695

Garegnani P.,1960. “Il capitale nelle teorie della distribuzione”, Milano: Giuffrè; repr. 1972, 1978.

Sraffa P., 1960. “Produzione di merci a mezzo di merci. Premesse ad una critica della teoria economica”, Einaudi, Torino.

1 Ci riferiamo qui all’impossibilità di concepire il capitale come una merce, di cui il profitto possa essere considerato il prezzo, essendo il capitale in realtà un insieme di mezzi di produzione eterogenei. Da ciò consegue che il capitale non può essere dato, cioè misurato in termini di valore, indipendentemente dalla determinazione dei valori delle merci che lo costituiscono e anteriormente ad essa. Se questo non è possibile, allora non è possibile nemmeno misurare il prodotto marginale del capitale, e nemmeno quello del lavoro. Pertanto non esiste la possibilità di risolvere il problema distributivo adottando l’impianto marginalista, che calcola il profitto e il salario d’equilibrio proprio sulla base dei prodotti marginali di capitale e lavoro. Ne deriva che la divina armonia distributiva sancita dai neoclassici non è dimostrabile: non esiste quindi nessun livello “naturale” del salario, e di conseguenza nessuna configurazione distributiva del prodotto sociale d’equilibrio.

2 Garegnani e Pasinetti si contrapposero fortemente a Samuelson e Solow nella controversia sul capitale.


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