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Attualità

La strategia della gradualità: come de-sovranizzare uno Stato all’insaputa di un popolo

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Uno dei 36 stratagemmi (dell’arte cinese della guerra) più geniali va sotto il nome di “Togliere la legna da sotto la pentola”: è il diciannovesimo, cioè il primo del quarto libro destinato alle situazioni confuse o dove è necessario confondere gli avversari. Esso insegna che, per poter sottrarre energia a un nemico, non conviene agire tutto d’un colpo, ma semmai procedere per gradi, un po’ alla volta. Proprio come quando si deve diminuire la potenza di un fuoco che arda sotto un grosso pentolone. La via più semplice è levare, da sotto il paiolo bollente, un ciocco alla volta. Eliminata, in tutto o in parte, la legna, anche la forza del falò ne risentirà riducendosi proporzionalmente, perché è proprio la legna ad alimentare la fiamma. Morale: la gradualità paga. Essa ci fa raggiungere risultati che non saremmo mai riusciti a conseguire agendo con impeto e con l’obiettivo “ingordo” di ottenere tutto e subito.

 

 

Per intendere ancor meglio questa perla di saggezza orientale, ripassiamo un po’ della nostra storia occidentale. Vi ricordate del generale romano Quinto Fabio Massimo detto “cunctator”? “Cunctator” significa “temporeggiatore”. Si tratta del comandante in capo dell’esercito incaricato di difendere le precarie sorti di Roma quando il grande condottiero cartaginese Annibale Barca era ben oltre le “porte” d’Italia. Quest’ultimo sembrava sul punto di sferrare un colpo mortale all’esistenza stessa della città fondata da Romolo e destinata a diventare uno dei più grandi imperi della storia.

 

 

Annibale era riuscito a invadere la penisola passando attraverso i valichi alpini. Dopo una marcia estenuante e terribile, anche ad altissima quota tramite gole e dirupi, con tanto di elefanti al seguito, egli aveva coagulato intorno a sé un’armata composta non solo da cartaginesi, ma anche da alleati raccolti, strada facendo, tra le popolazioni celtiche del Nord Italia. L’astuto stratega aveva poi inferto sconfitte durissime a Roma e alle sue legioni in varie battaglie, una delle quali fu quella del Lago Trasimeno, risoltasi in una autentica ecatombe per i fanti e i cavalieri romani.
Ebbene, fu in quel tragico momento che Quinto Fabio Massimo si trovò investito del delicatissimo compito di approntare l’estrema difesa contro lo scatenato generale africano. E optò per una strategia che prevedeva non già lo scontro diretto, bensì una lenta serie di scaramucce periferiche con le quali puntava a logorare e prendere per sfinimento le truppe di Annibale.

 

 

Il suo metodo si rivelò, alla lunga, vincente (la disfatta di Canne fu dovuta proprio al cambio di strategia dei consoli Varrone ed Emilio Paolo). Ad ogni buon conto, la linea d’azione fu poi ripresa e consentì a Roma di guadagnare tempo e di rimettersi in sella fino a riportare, grazie agli Scipioni, un trionfo definitivo e tombale sul temibile nemico cartaginese.

 

 

Quinto Fabio Massimo si meritò l’epiteto di cui sopra, “temporeggiatore”: con tale appellativo si designa chi non ha fretta, chi sa aspettare e raggiunge il proprio scopo non attraverso un attacco repentino, scoperto e furibondo; piuttosto, tramite piccoli passi, senza magari che la vittima se ne accorga. È questo il significato dello stratagemma di cui stiamo parlando.

 

 

Una metafora azzeccata, per rendere ancor meglio l’idea, è quella tratta dal lavoro del grande Noam Chomsky. Parliamo del Principio della rana bollita, spiegato nel libro Media e potere che, si noti, è perfettamente in linea quanto andiamo dicendo: sempre di pentoloni si tratta.

 

 

Dunque, come si fa a bollire una rana quasi a sua insaputa? La si butta nel calderone di acqua fredda e poi si alza la temperatura di un grado alla volta.

 

 

La povera bestiola si troverà cotta a puntino senza quasi accorgersene. È una variante della strategia di Quinto Fabio Massimo: procedere tomo tomo e cacchio cacchio, come direbbero i napoletani, a fari spenti, senza dare nell’occhio. In tal modo si può arrivare a sconfiggere persino il più grande condottiero della storia (alla pari con Napoleone), e cioè l’Annibale del III secolo a.C.

 

Se è così che si porta a ebollizione un ranocchio distratto, è sempre così che si priva della libertà i popoli sovrani e le nazioni indipendenti di un intero continente. Perché di questo stiamo parlando, giusto? Di come ci siamo trovati improvvisamente privi della nostra sovranità e della nostra indipendenza senza quasi rendercene conto.

 

Il motivo sta tutto compendiato nella strategia in oggetto. Ci hanno bollito per gradi, come la rana dell’esempio, ci hanno logorato con piccole, quasi impercettibili, modifiche del nostro ordinamento giuridico. Parliamo di “riforme” portate avanti senza troppo chiasso, un passo alla volta, di anno in anno, a volte lasciando trascorrere un certo numero di stagioni tra l’uno e l’altro dei cambiamenti più significativi; in modo che, appunto, non ci facessimo troppo caso.

 

Non dobbiamo sottovalutare questa tecnica di manipolazione perché è una delle più potenti ed efficaci; e anche perché continua a essere utilizzata, a nostre spese, mentre “sonnecchiamo”. Vediamo ora, più da vicino e più concretamente, come la strategia in questione è stata applicata al progetto europeo.

 

Ricordate, forse, un solo momento in cui vi sia stato un ampio dibattito pubblico sulla questione della nostra adesione all’euro o alla UE? Anzi, mettiamola così: ricordate un momento in cui vi sia stato chiesto se volevate rinunciare al potere esclusivo di fare le leggi cui gli italiani debbono obbedire? O se volevate abdicare alla prerogativa di avere una vostra banca nazionale che governa la genesi di una moneta nazionale quando e come vuole senza dover dipendere da una entità straniera? O se volevate attribuire il potere di fare norme, in grado di avere la meglio sulle stesse leggi italiane, a un organismo di ventisette persone non elette, quasi tutte di nazionalità non italiana, cui partecipa un solo italiano, sempre non eletto da nessuno? Non ve lo ricordate, vero? Tranquilli, non avete problemi di memoria. Semplicemente, non è mai successo.

 

Eppure, ciascuna di tali domande descrive alla perfezione lo stato attuale delle cose. E allora come è accaduto? È accaduto grazie allo stratagemma della legna e del fuoco, grazie alla strategia di Quinto Fabio Massimo e della rana bollita di Chomsky: un passo alla volta, senza clamore, senza informazioni, senza discussioni, senza dibattiti.

 

 

Nel 2004, la Costituzione europea fu approvata, tra squilli di tromba, in quel di Roma, salvo poi essere bocciata dai francesi e dagli olandesi con un referendum che cestinò l’intero progetto; è interessante ricordare come si chiamasse il contributo che Romano Prodi, allora Presidente della Commissione europea, aveva personalmente deciso di dare alla futura Costituzione d’Europa: progetto Penelope27. Proprio così: “Penelope”. La celeberrima moglie dell’eroe acheo Ulisse passata alla storia della letteratura universale e dell’immaginario collettivo come simbolo stesso della pazienza perseverante e silenziosa. La nobile matrona, astuta e discreta quasi quanto il suo furbissimo consorte, di giorno tesseva la tela che di notte provvedeva a disfare. Aveva infatti promesso ai Proci, i quali si disputavano la sua mano, che, non appena la avesse terminata, si sarebbe concessa a uno di loro.

 

 

Venne scelto a caso il nome “Penelope”? Certo che no. Venne elaborato durante pubbliche consultazioni quel progetto? Certo che no. Piuttosto, in gran segreto. Insomma, vi troviamo applicate la gradualità dello stratagemma di cui stiamo parlando frammista alla silente operosità di quello precedente: cavalcare il mare all’insaputa del cielo.

In un interessante e documentatissimo articolo di Giovanna Tosatti del 19 luglio 2018, tratto dal sito “Officina della Storia”, il Progetto Penelope è così significativamente descritto:

«Uno studio di fattibilità denominato “Penelope”, elaborato in segreto da un gruppo ristretto di funzionari sotto la guida di François Lamoureux e presentato al pubblico il 5 dicembre 2002. Il nome fu scelto dallo stesso Lamoureux, memore di un capitolo dell’opera di Jean-François Deniau L’Europe interdite (1977), in cui l’autore affermava che gli antichi greci non attribuivano mai nomi a caso».

 

E, ancora: «Un nome che evoca fedeltà, tenacia, accortezza, un riferimento al lavoro “notturno”, e alla riservatezza che, come scriveva Paolo Russo Caia, consulente della Commissione, serviva a evitare pressioni e compromessi, a proteggere un oggetto ancora fragile prima che la completezza e la sua interna coerenza lo rendano robusto. Come la sua antica antenata, è armata di pazienza: per proporre il suo testo, la Commissione ha infatti aspettato che la Convenzione esprimesse la volontà politica di fare una costituzione e che il suo Praesidium elaborasse il suo famoso squelette».

 

 

Ma torniamo a noi e all’attualità. Tutte quelle suindicate sono state tappe di avvicinamento progressive, non troppo evidenti, se guardate con una prospettiva di breve periodo. Se, invece, osservate da lontano, con uno sguardo non afflitto da miopia, il disegno comincia ad apparire chiarissimo nella sua premeditata intenzionalità. Si è trattato, insomma, della realizzazione pratica e ineccepibile della strategia della rana bollita. Troppi passaggi, in un tempo troppo lungo e mai dibattuti a sufficienza, ci hanno fatto perdere il senso dell’arazzo nel suo insieme.

 

 

Che le cose siano andate davvero così, lo spiega in modo esauriente lo storico ed editorialista del «Corriere», Sergio Romano, in un libro del 2004, Europa, storia di un’idea. Romano, a un certo punto, parla del metodo utilizzato da Jean Monnet. Quest’ultimo è una delle vecchie volpi responsabili del processo di unificazione comunitaria. Egli si rese conto che le classi dirigenti dei singoli Paesi (litigiose come i capponi di Renzo) non avrebbero rinunciato tanto facilmente “ai sacrosanti simboli della sovranità nazionale” (parole di Romano). Per stanarli dal pollaio ove ciascuno era rinchiuso, Monnet ricorse a un sotterfugio che ricorda in modo impressionante la tecnica di cui ho parlato in questo capitolo.

 

 

L’autore, da storico, la riassume come segue: «Occorreva unificare alcuni settori, affidarne l’amministrazione a un’autorità sovranazionale e sperare che ogni passo verso l’integrazione creasse la necessità di un passo ulteriore. Cominciò così una specie di gioco del domino». E, ancora: «Fu questo il domino europeo: una fiche accanto all’altra, secondo la logica della necessità e dell’opportunità. Ogni progresso creava problemi che richiedevano nuove soluzioni, ogni tratto di strada apriva nuove prospettive e costringeva l’Europa ad ampliare il suo orizzonte».

 

 

Il progetto è ideato proprio come un gioco di società o – se preferite una metafora più adatta ai tempi – come l’incedere di una blockchain. Non solo ogni passo è piccolo e apparentemente slegato rispetto alla “lunga marcia” di cui costituisce un insignificante segmento, ma è fatto in modo tale da non poter più essere messo in discussione una volta compiuto. Ciascuna mossa blinda inesorabilmente, e irrevocabilmente, tutte quelle già in precedenza realizzate. Così, i popoli e gli Stati si trovano nelle condizioni di avere una sola possibilità: restare fermi o andare avanti. E, ovviamente, il progressista e il riformista di turno hanno buon gioco nel suggerire che conviene senz’altro tirare innanzi.

 

 

Dopotutto, fatto trenta, convien fare trentuno, dico bene?
Per quanto riguarda le opportune contromisure a questo stratagemma, sono sostanzialmente due:

 

 

  1. in primo luogo, dobbiamo trovare il tempo e il modo di studiare la storia, anche recente, se vogliamo avere una visione d’insieme adeguata a capire la logica delle cose e, soprattutto, quella degli strateghi dietro le quinte. Ciò significa lavoro, fatica, discernimento. Tre elementi che richiedono ovviamente tempo. Quel tempo di cui, forse non a caso, l’odierno assetto della società ci priva sistematicamente: se lavoriamo, perché il lavoro ci prosciuga ed è ormai condotto a ritmi così frenetici da farci arrivare a sera prosciugati da ogni energia. E magari capaci solo di pensare a come trascorrere in santa pace la serata; se non lavoriamo, perché l’assenza di lavoro ci angoscia e quindi focalizza la nostra attenzione solo sul bisogno di mettere insieme il pranzo con la cena. In entrambi i casi, dobbiamo poi confrontarci con le insidie dell’entertainment, cioè del numero spropositato di possibili fonti distrattive rappresentate dalla sconfinata offerta di media, film, internet, passatempi e chi più ne ha più ne metta. Tutto ciò non solo non è casuale, ma ha un prezzo. Ci “toglie di mezzo”, letteralmente. Insomma, ci impedisce di partecipare al gioco, ci impedisce di orientarci attraverso il suo tragitto e le sue “caselle”, ci impedisce di capirne le regole e il funzionamento. In ultima analisi, ci priva della possibilità stessa di “giocare”, cioè di contare qualcosa. Ebbene: per capire, orientarci e decidere (di conseguenza) in modo assennato e consapevole, dobbiamo prepararci, applicarci e studiare le regole del gioco. Fa parte di tali regole anche, e soprattutto, la conoscenza della storia recente del processo di unificazione, dei passaggi “chiave” di tale storia, dei concatenamenti tra un passaggio e l’altro. Sta a noi decidere se ne vale la pena. Se propenderemo per il no, non lamentiamoci poi che si sta così male, tutti stretti e asserviti, sul famoso tetto che scotta.

 

  1. In secondo luogo, dobbiamo ricordarci sempre che tornare indietro non è l’unica opzione sul piatto. Se arretrare, in certi casi e in certi momenti, può apparire una soluzione spaventosa (pensate a tutto il terrorismo mediatico sulla Brexit o sull’Italexit), allora ci si può concentrare anche su un obiettivo meno ambizioso, ma temporaneamente efficace: quello di “restare fermi”, di rifiutarsi di procedere lungo un cammino di cui si sono scoperte le origini perverse e le reali, e niente affatto buone, intenzioni. La strategia di restare fermi ha molti limiti, ma anche qualche grosso vantaggio: quello di arrestare la marcia verso l’inferno, tanto per cominciare. È una tattica temporanea, ovviamente, ma ci consente di riprendere fiato, di guardarci attorno, di capire se è davvero un “destino” segnato quello indicatoci da chi ci esorta a proseguire sempre avanti e senza tregua. In altri termini: è solo fermandosi che si può maturare la voglia, e la forza, di tornare indietro.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com

 

Suggerimenti di lettura: “Manuale di autodifesa per sovranisti” (Byoblu editore)


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