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LA SANITA’ SVENDUTA – Articolo di Francesco Carraro e Massimo Quezel su IL FATTO QUOTIDIANO di oggi

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BUSINESS PER RICCHI E UN FATTURATO DA CAPOGIRO

Parliamo  di un delitto perfetto. Un delitto orribile, perpetrato non nei confronti di una singola persona, ma del bene più prezioso per ciascuno di noi: la salute, fondamentale presupposto della felicità, senza il quale ogni altro bisogno e interesse perde importanza. È il cardine stesso della vita, il tanto sbandierato «valore supremo». Non a caso, la nostra Carta costituzionale, al primo comma dell’articolo 32, fa riferimento alla sua rilevanza sia sul piano privato che sociale.

Per i padri costituenti, la salute non è solo una questione legata al singolo cittadino: lo Stato ha il dovere di tutelarla per garantire il benessere generale e le migliori condizioni di convivenza. La tutela della salute dei cittadini, insomma, è un fatto di civiltà, riguarda tutti, non solo chi sta male. Una indicazione, questa, che sarà alla base del Servizio sanitario nazionale istituito proprio quarant’anni fa, nel 1978: uno dei cambiamenti istituzionali più profondi ed efficaci in Europa nel campo del welfare. Eppure, i figli dissennati di quei padri – cioè la classe dirigente del paese, senza distinzioni di colore e appartenenza – sembrano impegnati da tempo a raggiungere l’obiettivo di affossare il sistema sanitario e liberarsi di quello scomodo articolo, rendendolo lettera morta. I nostri rappresentanti eletti, che sarebbero tenuti a tutelare gelosamente lo spirito costituzionale, lo hanno invece messo nel mirino e fremono dalla voglia di premere il grilletto. Conosciamo bene la loro tesi: «Dobbiamo ridurre il debito, dobbiamo gestire meglio i soldi dei contribuenti». Molto spesso seguita dal sempreverde: «Ce lo chiede l’Europa!». Certo, ci sono i vincoli europei da rispettare, il contenimento del deficit, la necessità di limitare gli sperperi, la crociata contro gli sprechi… Tutto giusto, la realtà però è un’altra e in queste pagine proviamo a raccontarla. Da tempo è in atto una strategia – portata avanti all’insaputa dei cittadini – che punta a un bersaglio molto più allettante della tanto pubblicizzata spending review. Qualcuno sta mettendo in discussione l’inestimabile conquista civile lasciataci in eredità dai padri della patria e rubricata sotto il nome di sanità pubblica accessibile a tutti? Esiste un progetto per rottamare la punta di diamante del cosiddetto welfare universale? Analizzando a fondo la questione, quanto sta accadendo alla sanità italiana sembra in linea con i desideri dei veri regnanti del nostro tempo: i mercati e la finanza. Tanto più che anche le istituzioni europee – che ormai distribuiscono ai singoli stati ordini e bacchettate in pari quantità – portano avanti una strategia in cui liberalizzazioni, privatizzazioni e concorrenza devono farla da padroni. Non c’è ambito della vita pubblica o patrimonio della collettività, in Italia e in Europa, che non possa trasformarsi in una occasione di guadagni a moltissimi zeri. Un piatto ricco, di cui la nostra salute è il boccone più ghiotto.

In un contesto di aziendalizzazione spinta, dove contano solo budget, target e business, a soffrire non sono solo i pazienti, ma anche i medici sottoposti a vessazioni e intimidazioni. I rappresentanti dell’Anaao parlano di «diffuso comportamento aggressivo da parte delle aziende sanitarie nei riguardi dei propri dipendenti, in clima da caserma. In alcuni casi il codice disciplinare è stato volutamente utilizzato in modo improprio, come strumento di intimidazione». L’aspetto grottesco della situazione è che i nostri governanti si stanno impegnando con puerile entusiasmo nel business della medicina – o meglio, nella medicina come business – anziché nel recupero di una visione costituzionalmente orientata della salute pubblica. Tant’è vero che la Farnesina si sta prodigando per spingere «un mercato in forte crescita» come «quello del turismo sanitario che l’Italia tenta di intercettare grazie a strutture di ottimo livello». Ecco di cosa si è parlato nell’ottobre del 2017 al convegno Qualità del sistema sanitario italiano, turismo e attrattività dei territori, organizzato dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale. Durante l’incontro si è constatato che «il sistema sanitario italiano si colloca già oggi ai primi posti nei ranking mondiali grazie a strutture di assoluta qualità, che attraggono numerosi pazienti dall’estero e stanno portando a crescere ulteriormente nel turismo medicale e della salute». Favolosa istantanea dell’era contemporanea: l’eccellenza nazionale vantata non a buon pro dei cittadini (soprattutto poveri) che avrebbero diritto alle sue prestazioni, ma a beneficio degli stranieri (soprattutto ricchi) che possono spendere e spandere quattrini nelle magnifiche location sanitarie del nostro paese. E a conferma dello spirito che anima l’attuale governance delle politiche sanitarie e i più attenti player del settore, nell’articolo appena citato si può leggere che il turismo sanitario «è un mercato in forte espansione a livello globale che ora l’Italia sta tentando di intercettare e coordinare. Quello che è mancato finora è stato un brand di sistema nazionale che rappresenti l’Italia nel mondo. […] Secondo gli studi più recenti, si potrebbe registrare un incremento del fatturato della filiera della salute di oltre 5 miliardi di euro l’anno». Capita l’antifona? Il problema non è quindi trovare il modo per destinare più soldi alla sanità pubblica, semmai trovare il modo per fare più soldi con la sanità privatizzata. Ma davvero le cose devono andare così? Davvero siamo tenuti a sacrificare l’enorme privilegio di un sistema sanitario funzionante, tendenzialmente gratuito e universale sull’altare della regolarità dei conti pubblici e degli interessi del mercato? Forse no. Forse possiamo ancora fermare la marcia di questa macchina perversa. La ribellione contro una simile deriva è possibile sia sul piano della fattibilità sia su quello del diritto. Già nel 1988, con la sentenza numero 1146, la Corte costituzionale aveva sancito che «la legge di esecuzione del trattato della Cee» andasse assoggettata ai «principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana». Una posizione ribadita, quasi con le stesse parole, nella pronuncia numero 284 del 13 luglio 2007. E, sempre dal giudice delle leggi, nel 2017 è arrivata anche la sentenza numero 169 a ridare fiato alle istanze di giustizia, spostando in secondo piano l’equilibrio contabile.

I giudici di legittimità hanno infatti sancito che i diritti costituzionali – soprattutto certi diritti costituzionali, come quello alla salute – non sono negoziabili né sacrificabili sull’altare delle esigenze di finanza pubblica. Ma il principio più chiaro e importante è quello che la Corte costituzionale ha sintetizzato nella sentenza numero 275 del 2016, sempre in materia di salute e sanità: «È la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione. […] Ferma restando la discrezionalità politica del legislatore nella determinazione – secondo canoni di ragionevolezza – dei livelli essenziali [di assistenza], una volta che questi siano stati correttamente individuati, non è possibile limitarne concretamente l’erogazione attraverso indifferenziate riduzioni della spesa pubblica». In conclusione, esistono ancora gli strumenti giuridici con cui tutelare il bene inestimabile e non negoziabile che chiamiamo «salute», insieme alla sua estensione organizzativa che chiamiamo «sanità». Se la politica ha abdicato – senza il nostro consenso e, a volte, a nostra insaputa – al suo ruolo di difendere ciò che ci spetta di diritto, forse sarà proprio il diritto ad aiutarci a recuperare quanto era nostro e nostro deve restare.

Francesco Carraro e Massimo Quezel


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