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Cultura

La nuova ERA della Sanità. Il modello Unipol (di Valerio Franceschini)

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Il piano è sempre lo stesso, qualsiasi sia il settore pubblico da demolire. Tagli la spesa, diminuisci i servizi, aumenti le tariffe, fai avvelenare gli utenti, muovi un po’ di media, alimenti una campagna contro “il servizio pubblico” che incontra resistenze sempre più deboli (il servizio funziona sempre meno) e alla fine privatizzi tutto o quasi.

Abbiamo assistito ai “grandi successi” di Telecom e di Alitalia, per non parlare dell’Ilva. Lo stiamo vedendo con la scuola e l’università, deteriorate dal taglio dei fondi, maltrattamento del personale e aumento delle rette, parallelo all’aumento dei fondi regalati alle scuole private.

La “fase finale” ora tocca alla Sanità.

La domanda è semplice, come si privatizza la sanità pubblica? Dandola in mano alle assicurazioni e alle strutture private come avviene in USA. C’è ancora un po’ di timore a presentarla così, quindi si comincia con degli studi, in cui magari un centro di ricerca serio come il Censis comincia a collaborare con un qualcosa che si chiama Unipol, si comincia a far circolare la teoria secondo la quale “bisogna superare certi pregiudizi” poiché le assicurazioni, in Italia, non godono effettivamente di grandi simpatie tra i cittadini, ma si comincia anche a disegnare teoricamente il nuovo assetto possibile di una sanità completamente privatizzata. Ad iniziare dal nome, ovviamente in inglese: White Economy.

Il rapporto Censis-Unipol prende atto con soddisfazione che la sanità pubblica è stata ormai “frantumata” a sufficienza e quindi “Appare ormai maturo il tempo di una nuova integrazione tra pubblico e privato, capace non solo di garantire la tutela sanitaria e sociale delle persone, ma anche di favorire la crescita economica, a partire dai territori”.

In fondo gli utenti sono stati ormai abituati a pagarsi quasi tutte le prestazioni sanitarie, a cominciare dall’assistenza agli anziani. Quindi non ci sarebbero troppi ostacoli pratici. Anzi, bisogna velocizzarsi perché la crisi economica ha ridotto la capacità di spesa delle famiglie in questo settore, infatti ci si cura in generale di meno (nonostante l’aumento dei ticket, infatti, nel 2014 la spesa delle famiglie è scesa del 5,7%) e per la prima volta è in diminuzione anche il numero delle badanti assunte per assistere gli anziani.

Per il presidente di Unipol, Pierluigi Stefanini, “Se sapremo superare i pregiudizi consolidati, il pilastro socio-sanitario, inteso non più solo come un costo, può divenire una solida filiera economico-produttiva da aggiungere alle grandi direttrici politiche per il rilancio della crescita nel nostro Paese”. E così, il gioco è fatto.

La salute della popolazione smette di essere un diritto individuale garantito dallo Stato (vedasi art. 32 Costituzione) e diventa una merce “prodotta” da una “solida filiera economico-produttiva”, con aziende private (cliniche, laboratori di analisi e diagnostica, etc…) che sostituiscono quasi in tutto la rete sanitaria pubblica; cui dovrebbero essere affidate, in misura assolutamente residuale, tutte quelle prestazioni da cui proprio è impossibile estrarre profitti privati: pronto soccorso, malattie gravi e/o invalidanti di persone con redditi troppo bassi, etc….

Naturalmente bisogna “comunicare” qualcosa di più attraente e meno crudele. Quindi si cerca di far leva sulle famiglie italiane argomentando che “nei lunghi anni della recessione hanno supplito con le proprie risorse ai tagli del welfare pubblico”; ed anzi ci si presenta come pronti a correre in loro soccorso, perché “oggi questo peso inizia a diventare insostenibile. Per questo è necessario far evolvere il mercato dei servizi alla persona in una moderna organizzazione che garantisca prezzi più bassi e migliori prestazioni utilizzando al meglio le risorse disponibili”.

Sembra la campagna pubblicitaria di una catena di ipermercati che garantisce “prezzi bassi e fissi”. E bisognerebbe chiedersi come sia possibile che una “moderna organizzazione” della sanità in mano ai privati riesca a garantire -in futuro – prezzi più bassi e migliori prestazioni.

L’esperienza comune, infatti, registra l’esatto opposto: prezzi spaventosi (una clinica privata con una certa affidabilità può arrivare a chiedere 500 euro al giorno per il solo ricovero, senza ancora calcolare i costi di visite specialistiche e medicinali, per non parlare degli interventi chirurgici), qualche problema con i casi clinicamente più complessi (come nella neonatologia, dove non è infrequente che bambini nati in cliche private vengano trasferiti d’urgenza in ospedali pubblici specializzati, come il Bambin Gesù di Roma). Poi, certamente, in una clinica privata il “numero chiuso” – ristretto a chi si può permettere di pagare certe cifre o è coperto da un’assicurazione (appunto…) – garantisce un rapporto meno frettoloso con medici e infermieri, meno affollamento e nessun letto nei corridoi. Queste sono prerogative che vengono da sempre assegnate alla sanità pubblica che deve accogliere e assistere chiunque – meritoriamente – anche se non c’è posto.

Ma ci sono dettagli decisamente interessanti nel rapporto Censis-Unipol. Per esempio, lo scorso anno (2014) la spesa sanitaria privata è crollata del 5,7%. La riduzione generalizzata dei redditi, la diminuzione dei consumi, insomma, sta mettendo in crisi i profitti dei proprietari dei grandi gruppi di cliniche e dei centri diagnostici privati (ad esempio i De Benedetti, per citarne uno); quindi è decisamente il “momento” di garantir loro un solido aumento delle entrate.

L’idea è di copiare il modello statunitense, con qualche mediazione: “un’integrazione tra offerta pubblica e strumenti assicurativi (che permettano di sottoscrivere polizze a costi accessibili per poter godere in futuro di servizi di assistenza, di cura e di long term care) e di intermediazione organizzata e professionale di servizi”.

Tutto ciò senza consegnare immediatamente e brutalmente la popolazione agli “intermediatori” sanitari privati ma attraverso una attenta regolamentazione che serva a “stabilire le modalità precise per attivare tale percorso di integrazione, non tralasciando che molti fenomeni di cambiamento socio-demografico variano ed assumono sfumature differenti a seconda dei territori in cui si articola il Paese (ad esempio coinvolgere gli Enti territoriali nella definizione di processi di integrazione pubblico-privato, vedasi le liste di attesa). In questa prospettiva si pongono le proposte, di alcuni operatori privati, in primis Unipol, di attivare fondi sanitari integrativi di tipo territoriale, con una forte compartecipazione degli Enti locali.

Decentramento, accordi con enti locali inchiodati dal “patto di stabilità” e dunque impossibilitati ad opporsi validamente alle pressioni dei “privati” in presenza di una riduzione generalizzata della spesa sanitaria pubblica e quindi alle montanti proteste della popolazione. La chiave per disarticolare le resistenze passa da qui.

Pertanto, i cittadini si preparino alle battaglie con le Assicurazioni, che ome in America, pretendono di coprire soltanto i clienti in perfetta salute, scartando tutti quelli che rischiano di costar loro più di quanto non versino di polizza.

Valerio Franceschini


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