Crisi
LA MARATONA DELL’INFARTUATO
La stanca metafora è sempre la stessa: cadendo dal ventesimo piano, all’altezza del decimo piano si può sempre dire: “Fino ad ora tutto bene”. Ma il governo Letta, non che consolarci, col suo ottimismo disneyano aggrava la nostra disperazione. Assicurare a chi si contorce per una colica renale che la sua salute è accettabile e presto migliorerà, anche se non gli si dà nessun aiuto, sa di incubo, se non di sadismo.
I giornali sono pieni di resoconti più o meno particolareggiati sui provvedimenti adottati dal Parlamento, e per seguirli ci vuole la pazienza di Giobbe, e il suo spirito di sopportazione. Ma la situazione può essere vista in modo panoramico. Per così dire, dal punto di vista di chi sta cadendo dal ventesimo piano e, arrivato al decimo, ancora non dice sciocchezze.
La comprensione della nostra realtà dipende necessariamente da una serie di passaggi concatenati. Circa dieci anni fa l’Italia è entrata nell’euro. Questa moneta unica ha sempre richiesto un ferreo controllo del bilancio statale. Infatti bisogna evitare che un singolo Stato la inflazioni, facendo poi pagare agli altri la svalutazione. Ma per far proseguire nel tempo la vita economica di nazioni diverse – con condizioni di partenza diverse e diverse legislazioni in materia di fisco e di lavoro – era necessario che accanto all’unione monetaria ci fosse quella politica. E infatti i “padri” dell’euro speravano che la moneta unica portasse alla nascita del governo unico. Cioè che il carro tirasse i buoi. Purtroppo non soltanto questa unione politica non si è avuta, ma essa appariva più probabile quando si è introdotto l’euro, dieci anni fa, che oggi. Allora c’era una sorta di entusiasmo, per l’Europa unita, oggi parlare di irritazione, al riguardo, è sicuramente un understatement.
Il risultato di questi presupposti è che i Paesi hanno continuato fatalmente a divergere, mentre l’euro costringeva a far finta che ciò non avvenisse. Il debito pubblico è aumentato non soltanto in quei Paesi che sono entrati già sforando largamente il plafond del 60% previsto (l’Italia, ammessa infatti perché non facesse danni rimanendo libera e all’esterno), ma anche in Paesi – come la Francia – che prima erano sufficientemente virtuosi. Parigi ha ora un debito pubblico che si avvia al 90% ed ha perso la tripla “A” delle agenzie di rating. La Grecia è addirittura tecnicamente fallita, i greci sono disperati e il Paese è tenuto in vita dalla macchina cuore-polmone. Un disastro.
A questo punto ci si è accorti che non soltanto si era creato un euro assurdo, ma non si era previsto il modo di smontarlo. Per giunta i rapporti intessuti nel frattempo si sono intrecciati inestricabilmente al punto che, uscendo un membro dall’eurozona, c’è il rischio che rovini tutto l’edificio. E dunque è interesse di tutti impedirlo, ad ogni costo. Germania inclusa.
E ora si può riprendere la catena da principio. L’Italia è nell’euro, ma paga enormi interessi per il suo debito pubblico in una moneta fortissima (vale quasi il 40% in più del dollaro americano). Ha un’economia non competitiva ed è in preda ad una depressione annosa e in via di peggioramento. Dal momento che il fabbisogno aumenta – e non si può ricorrere all’inflazione – si possono soltanto aumentare le tasse. Ma aumentare le tasse in un Paese economicamente depresso è come fare un salasso a chi sta morendo d’inedia, per giunta con risultati scarsi. Le imposte infatti accentuano la depressione, i consumi calano, e dunque cala anche il gettito fiscale. Per esempio quello dell’Iva, malgrado l’aumento della sua aliquota. È un circolo infernale. All’Italia ammalata si somministra una cura che aggrava la sua malattia. Ha un cuore pronto per il trapianto e le chiedono di salire le scale di corsa.
Naturalmente Enrico Letta e gli altri ministri non sono tanto sciocchi da non vedere tutto questo, ma credono di non avere la libertà di adottare un’altra soluzione. Vivacchiano, dunque. Grattano il fondo del barile. Chiedono un obolo in più alla macchinetta del caffè dell’ufficio o a chi deve fare una raccomandata. Forse sognano già una tassa sui sorrisi, segno di benessere e dunque di maggiore capacità contributiva. Sperano di arrivare al nono piano, in modo da poter dire ancora “Fin qui tutto bene”.
Il fatto è che il selciato, sotto, attende tutti noi.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
27 dicembre 2013
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