Attualità
La fragilità delle Teorie Economiche al tempo del Coronavirus e del MES
di Davide Amerio
Coronavirus, crisi, e soluzioni economiche. Quando gli economisti danno risposte differenti a chi dobbiamo credere? come distinguere il giusto dallo sbagliato?
Un amico, qualche giorno fa, mi poneva alcune domande: sento economisti affermare tesi completamente opposte, su ciò che va fatto. A chi bisogna dare credito? Come faccio a capire chi ha ragione?
Il tema è quanto mai attuale, in queste difficili settimane di epidemia, di confusione, di annunci e contraddizioni palesi nelle azioni di molti politici. Proviamo a gettare un po’ di luce partendo da qui:
“Nel nostro tempo la sventura consiste nell’analfabetismo economico, così come l’incapacità di leggere la semplice stampa era la sventura dei secoli precedenti”
(Ezra Pound)
La nostra epoca (XXI sec) è iniziata con l’auspicio di essere l’era delle idee, dopo la caduta delle ideologie. Una nuova stagione fertile di riflessioni da condividere attraverso gli strumenti tecnologi, per riuscire a risolvere, almeno in parte, i problemi che attanagliano il mondo, e rendono la vita di molti difficile, al punto da chiedersi se valga la pena di essere vissuta.
Ci troviamo invece, troppo sovente, a parlare di analfabetismo, funzionale o meno, rilevando che alla capacità massiva della comunicazione non corrisponde un livello qualitativo adeguato: lo scambio d’opinioni è sconfitto dallo scontro tra fazioni. Il sistema dell’informazione, sempre troppo schierato, non contribuisce a migliorare la situazione: si evita di fornire al pubblico criteri per formulare giudizi critici. Nella scuola le questioni economiche vengono toccate a livello universitario, negli altri livelli di economia politica non si parla mai, se non in termini generici.
Proviamo a farci qualche riflessione.
In primo luogo occorre sfatare, magari definitivamente, un mito: che l’economista sia un deus ex machina, sia il profeta, sia l’interprete assoluto, sia il “verbo”, sia il predicatore errante che dispensa la verità ‘divina’.
Non è per cattiveria, nemmeno per disprezzo, nei confronti degli economisti, ma questo “mito” è stato coltivato dai media per decenni, sino a diventare un luogo comune, un pre-giudizio: ciò che dice l’economista è sempre qualcosa di sensato… perché lui sa!
Ci è stato sempre “nascosto”, nel dibattito pubblico, che la scienza economica, come tutte le scienze contemporanee, implica una certa visione del mondo e della società.
I fisici, con la ricerca quantistica, hanno scoperto da tempo che l’osservazione implica una influenza su ciò che viene osservato. Anche le contemporanee scienze sociali pongono l’attenzione sull’influenza dell’osservatore nella ricerca e nella conseguente formulazione delle teorie.
Presentare quindi l’economista come un soggetto asettico che esamina il mondo dentro un laboratorio sterile, incontaminato, e osservato solamente con modelli matematici precisi, è una idea sballata non corrispondente al vero.
L’economista è un interprete del mondo, oltre a esserne studioso; la sua concezione dello stesso influenza la ricerca, e le sue conclusioni.
Un liberista ha una fede assoluta nel mercato che si auto regola, e vede nello Stato un soggetto terzo incomodo, che deve svolgere pochissime mansioni, e sopratutto non deve intervenire nelle vicende dell’economia di scambio.
L’egoismo dei singoli è inteso come propellente per l’economia; la ricerca individuale della ricchezza materiale rappresenta un bene per l’intera collettività che ne beneficia in conseguenza. La libertà dell’individuo prevale su qualsiasi altra considerazione etica o morale. Le scelte individuali sono sempre concepite come “razionali”.
Il neo-liberista ripone nella globalizzazione gestita con un sistema finanziario globale, privo di controlli, la massima fiducia, ritenendola la migliore soluzione possibile per la diffusione della ricchezza.
Un Keynesiano ritiene, all’opposto, lo Stato svolga una funzione essenziale nel regolare il sistema economico; esso deve intervenire (con la Spesa Pubblica, la gestione della moneta, e la Tassazione) per gestire i fallimenti del mercato, che producono cicli di “alti e bassi”. Durante i cicli bassi, lo Stato deve stimolare il sistema economico; durante i cicli alti, deve intervenire per evitare che si creino scompensi troppo forti che possano provocare danni, come l’inflazione.
Un Monetarista vede nella gestione della quantità di moneta in circolazione lo strumento migliore per amministrare l’economia. Nei momenti di recessione è necessario immettere moneta (stampandola e diffondendola); all’inverso, nei momenti di troppa crescita economica, è necessario dragare liquidità dal sistema con la leva fiscale.
Questa è, ovviamente, una semplificazione. Me ne perdonino gli specialisti.
La storia dell’economia presenta molti studi, grandi intuizioni, e altrettanti grandi fallimenti. Il crollo del 1929 ebbe tra le cause errori di analisi e l’assenza di una branca della scienza economica che sarebbe nata con Keynes: la macroeconomia.
La grande sfida che si trovarono ad affrontare gli economisti di allora era capire come la somma dei comportamenti individuali conducesse a un risultato completamente diverso dalle aspettative.
L’esempio classico è quello del risparmio. A livello del singolo individuo è un fattore positivo ma, se tutti risparmiano contemporaneamente e nessuno si decide a spendere il proprio reddito, il sistema, a livello macroeconomico, entra in crisi: non si acquistano più i beni prodotti, non circola moneta, le aziende non vendono, quindi licenziano, quindi cresce la disoccupazione, quindi meno redditi disponibili con cui alimentare il sistema, quindi… spirale recessiva.
L’assegnazione del premio “Nobel” per l’economia (che viene chiamato così impropriamente, perché non esiste la categoria per la fondazione Nobel, ma è un premio equivalente emesso dalla banca di Svezia), è stata talvolta oggetto di forti critiche: non è stato assegnato ad alcuni economisti di valore, mentre altri lo hanno ricevuto per teorie piuttosto discutibili.
Per esempio: lo sapete che i due economisti che hanno inventato i “derivati” (causa dei principali guai finanziari contemporanei) sono stati insigniti di questo premio? E che quando l’hanno ricevuto erano a capo di una società finanziaria che operava con questi prodotti ed era già in passivo di 2 milioni di dollari? Le premesse non erano granché.
«La guerra moderna, fortemente tecnologica, mira ad eliminare il contatto umano: sganciare bombe da un’altezza di 15.000 metri permette di non sentire quello che si fa. La gestione economica moderna è simile: dalla lussuosa suite di un albergo si possono imporre con assoluta imperturbabilità politiche che distruggeranno la vita di molte persone, ma la cosa lascia tutti piuttosto indifferenti, perché nessuno le conosce” (*)
Il punto centrale della domanda iniziale del mio amico è domandarsi, di fronte ad un economista, a quale “filosofia” appartenga. Qual’è il suo reale pensiero sulla società, come pensa debba essere prodotta la ricchezza, quale deve essere il ruolo dello Stato, e, non meno importante, come dovrebbe essere distribuita la ricchezza prodotta.
L’Unione Europea è l’emblema delle contraddizioni causate dall’avere assunto una filosofia economica di stampo neo-liberista, avendo escluso dal dibattito sia i cittadini, sia gli economisti “critici” che avevano individuato i problemi che si sarebbero generati.
“[…]Sebbene l’euro fosse un progetto politico, la coesione politica -specie attorno al concetto di delega dei poteri dai paesi sovrani all’UE – non è stata sufficiente a creare istituzioni economiche che avrebbero dato alla moneta unica una possibilità di successo.
Inoltre i fondatori dell’euro si sono ispirati a un sistema di idee e concetti sul funzionamento dell’economia che, sebbene in voga all’epoca, erano semplicemente sbagliati.
Credevano nei mercati, senza però conoscerne i limiti e ciò che occorre per farli funzionare. La fiducia incrollabile nei mercati viene talvolta definita fondamentalismo o neoliberismo.
[…] Sebbene quasi ovunque nel mondo il fondamentalismo di mercato sia caduto in discredito, specie all’indomani della crisi finanziaria del 2008, queste idee sopravvivono e continuano a trovare propugnatori in Germania, potenza dominante dell’eurozona. Immuni a qualsiasi prova contraria […] hanno assunto i contorni di un’ideologia. […]” (*)
Oggi il dibattito tra MES, Eurobond, Elicopter Money, è il sintomo di questa illusione. C’è chi vorrebbe proseguire sulla linea della rigidità dei parametri (austerità) per costringere i paesi su binari predefiniti che favoriscono la finanza internazionale e le speculazioni, piuttosto che i cittadini. Invece c’è chi sostiene che, in tempi di recessione, l’austerità aggrava la situazione, se non si permette allo Stato di spendere per stimolare l’economia.
Il caso dell’Italia è emblematico: da 25 anni il paese è in ‘avanzo primario’, ovvero spende meno (per i servizi, il welfare, gli stipendi, le pensioni, i contribuiti) di quanto incassa. E sappiamo quanta diminuzione nei servizi questo ha comportato: abbiamo sotto gli occhi gli effetti devastanti che l’austerity (e le privatizzazioni) hanno prodotto sul Sistema Sanitario Nazionale.
L’avanzo primario (Spese – Tasse) viene completamente assorbito dagli interessi passivi sul Debito Pubblico. Quindi tutti i “nostri” sacrifici vengono ingoiati dal sistema finanziario, anche se parte di questi interessi tornano nelle tasche di cittadini italiani che detengono titoli di stato.
Il punto è che lo Stato non può finanziare la spesa pubblica (perché le risorse sono assorbite dagli interessi, e non può stampare moneta perché privato della sovranità) per stimolare l’economia. Senza questo stimolo (bloccato dai principi dell’austerity) il PIL stenta, e i parametri Deficit/Pil, e Debito/Pil sono insoddisfacenti perché il denominatore non aumenta.
Insomma un circolo vizioso creato dalle burocrazie europee che hanno sposato in toto la filosofia neoliberista che ripone fiducia cieca nel mercato e pretende libertà assoluta per i mercati finanziari. Gli accordi di Maastricht si preoccupano della stabilità dei prezzi, e dell’inflazione, come sufficienti per garantire il benessere.
Attenzione: quando parliamo di spesa dello Stato dobbiamo sicuramente fare altre riflessioni su quale tipo di spesa sia opportuno fare. In Italia siamo abituati a parlare di Debito Pubblico in termini quantitativi assoluti, mai in termini relativi alla “qualità” del debito, cioè a come impieghiamo realmente i soldi.
Le iniziative utili sono quelle che consentono l’effetto moltiplicatore della spesa: ogni euro che investo viene messo in circolazione e produce ricchezza passando per diverse mani.
Di certo questo non accade se la spesa diventa eccessiva e a beneficio di pochi (corruzione), o la moneta viene trattenuta da alcuni (con l’evasione fiscale), oppure buttando soldi in opere inutili o mal progettate (TAV, MOSE).
Come uscirne? Ci sono difficoltà in merito. Primo perché occorre cambiare paradigmi di politica economica. Secondo perché l’informazione che arriva al pubblico è imbevuta delle teorie pro-euro. Terzo perché queste teorie, corrispondono a un progetto politico elitario di gruppi sociali che possiedono anche i mezzi di informazione.
Altro che gli spot sull’informazione seria, degli editori “seri” di cui infarciscono la Tv in questo periodo!
Nelle ultime 48 ore abbiamo avuto l’esempio di un dibattito economico più dedicato ad alimentare fazioni, e soddisfare le necessità elettorali, che a promuovere soluzioni concrete.
Il documento dell’Eurogruppo è piuttosto indicativo di un linguaggio politichese che rimanda le decisioni e cerca di accontentare tutti i membri.
E’ vero che l’Italia non ha firmato il MES, com’è stato inopportunamente dichiarato da alcuni esponenti politici. Però l’Italia non è riuscita a far escludere il MES come strumento di finanziarizzazione degli stati (perché lo vogliono Germania e Olanda).
Quindi non c’è nulla di deciso, ma non c’è nemmeno da festeggiare. Ciò che vorrebbe il nostro governo è previsto, così come lo è il MES, e sono strumenti insufficienti a cui si oppongono gli stessi che sono favoreli al MES.
Ciò di cui non si è ancora discusso, sarebbe l’ipotesi di immettere liquidità nel sistema in modo da non aggravare i debiti delle aziende, e dell’intero paese; dal momento che la crisi, e la conseguente recessione, avvengono in una condizione di eccezionalità. Il MES è uno strumento molto pericoloso, che consegnerebbe il paese in mano a un organismo che esautorerebbe le istituzioni italiane provocando ciò che è già accaduto in Grecia. Le soluzioni alternative ci sono. Ma i tempi sono stretti e l’impegno dei leader europei sembra essere molto più rivolto a regolare la propria situazione politica interna che essere consapevoli della drammaticità della situazione, e delle conseguenze.
Speriamo di cavarcela.
(D.A. 12.04.20)
(*) Joseph E. Stiglitz – economista e saggista premio Nobel per l’economia
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