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La fallacia ad metum: come il mainstream europeista ci manipola con la paura

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La fallacia ad metum (cioè il ricorso “alla paura”) è una delle preferite dai cultori dell’Unione europea a oltranza: e cioè la “unione” a dispetto delle volontà popolari e a prescindere dai benefici che ne derivano. Essa consiste nel fare appello non già a dati di realtà ragionevoli e sensati, quanto piuttosto alla pancia o, se preferite, al cuore del cittadino medio. Potremmo aggiungere anche “al portafoglio” giacché il dato economico è sovente collegato alle reazioni emotive in genere, nel senso che le asseconda o, addirittura, le determina. Non c’è niente, come il terrore della miseria, in grado di indirizzare l’elettore nelle sue scelte. Un popolo come il nostro – i cui antenati elaborarono il famoso e fortunato slogan “O Franza o Spagna purché se magna” – lo sa fin troppo bene. Ma torniamo alla fallacia in esame.

Si tratta di una non argomentazione perché chiama in campo i sentimenti, le emozioni e, in particolare, la più potente di esse: la paura. Pensate a quante volte, da piccoli, siamo stati persuasi a sottoporci a un’esperienza detestabile (dai ferri del dentista alle forche caudine dell’asilo) sotto minaccia dell’uomo nero o del carbone di Babbo Natale o di chissà che altra peggiore sciagura la fantasia dei nostri adulti di riferimento fosse in grado di farci immaginare.

Vi viene da sorridere? Sbagliate, perché il metodo usato nei vostri confronti quando portavate i calzoncini corti o i vestitini alla marinara era analogo, in tutto e per tutto, a quello di cui stiamo trattando. Quello noto, nelle classificazioni delle fallacie, sotto il nome – per l’appunto – di fallacia ad metum.

Spaventate qualcuno, spaventatelo a sufficienza, e ci saranno ben poche cose che il tapino si rifiuterà di fare per voi, purchè gli imponiate un’alternativa meno tremenda degli effetti derivanti dalla disobbedienza ai vostri in-put.

Ovviamente, l’appello alla paura non è sempre e per forza una fallacia. Ci sono casi in cui esso è basato su dati di fatto realistici e abbastanza fondati da giustificare, e rendere persino logico e razionale (quindi non fallace), il suo impiego. Se un genitore dice a uno studente di applicarsi di più, anziché andare a zonzo tutto il giorno, perché altrimenti il discolo rischia la bocciatura, non ci troviamo di fronte a una fallacia ad metum, ma piuttosto a un consiglio ragionevole e motivato. Infatti, una sistematica latitanza nello studio può portare a non superare l’esame. Se invece la mamma intima al pargoletto, in età da asilo, di non fare i capricci altrimenti potrebbe arrivare il babau a portarselo via, allora ci troviamo di fronte a una fallacia. Efficace rispetto al pupo suggestionabile, ma pur sempre fallace.

Nel caso dell’Europa, il senso del ricorso “alla paura” è: non state a sentire chi si oppone all’euro e alla UE, altrimenti potreste amaramente pentirvene. I sovranisti vanno ignorati, e censurati, non perché dicano cose false o infondate, ma perché – ad ascoltarli o addirittura a farsene coinvolgere – si rischia di finire malissimo!

Nel caso della edificazione “in provetta” del mito chiamato Unione europea, la fallacia ad metum è stata utilizzata soprattutto dopo che i giochi erano compiuti ed è stata impiegata nel dibattito pubblico contro euroscettici, populisti e sovranisti, per squalificarli.

All’inizio, infatti, nella fase di costruzione della gabbia, i media e le istituzioni hanno puntato soprattutto sui benefici che la UE avrebbe apportato alle nostre vite se vi avessimo aderito e se avessimo, un passo via l’altro, ceduto tutte, o quasi, le nostre prerogative sovrane. Ci stavano portando “sul tetto” della felicità: vi ricordate lo stratagemma?

Una volta in cima, però, i cittadini italiani hanno cominciato a sentire – da qualche parte e per qualche ragione –puzza di bruciato. Essi hanno, quindi, iniziato ad accarezzare l’idea di una via d’uscita dal manicomio comunitario; allora l’argomento ad metum è diventato il preferito da parte dell’establishment.

Il problema, infatti, una volta scalato il “tetto”, non era più fare in modo che i vari Stati del vecchio continente salissero sull’attico comune, ma piuttosto scongiurare che chiedessero di scendere. Così, da un certo punto in poi – potremmo grossomodo situarlo verso la fine degli anni Zero, con lo scoppio della grande crisi – tutti i corruttori di coscienze impegnati nella manipolazione filoeuropeista ci hanno dato dentro con il ricorso ad metum.

Pensate a quante volte avrete sentito tratteggiare a tinte fosche il futuro di povertà, miseria, decadenza, inflazione, svalutazione, disoccupazione: quello profilantesi all’orizzonte se – non sia mai! – gli elettori dessero retta ai sovranisti pazzi e incoscienti fautori dell’addio all’euro e dell’uscita dalla UE.

Ce le hanno cantate in tutti i modi possibili e immaginabili: i Mercati puniranno l’economia italiana, l’Italia finirà stritolata con la sua “nuova” liretta nell’era della competizione globale, il debito pubblico schizzerà alle stelle, l’inflazione si abbatterà sulla nostra derelitta economia costringendoci ad andare a fare la spesa con le carriole di banconote come i tedeschi ai tempi della Repubblica di Weimar, saremo emarginati dal mondo.

Ovviamente, tutti questi non sono argomenti logici, ma prefigurazioni di catastrofi e non hanno l’obiettivo di farvi riflettere su un tema serissimo quale l’uscita dalla moneta unica o dall’Unione europea, ma di farvi aderire, come cozze a uno scoglio, in maniera irriflessiva e ottusa, a una data situazione. E soprattutto, ottengono un risultato ben preciso: inibire ogni serio dibattito sulla concreta praticabilità di una soluzione non allineata con gli auspici degli unionisti per partito preso.

Così, frenati dalla paura di precipitare in una brace incandescente, la gente preferisce senz’altro rimanere, suo malgrado, nella padella rovente. La natura grossolana di questa fallacia retorica è direttamente proporzionale alla sua tremenda efficacia. Milioni e milioni di persone – pur dopo aver constatato sulla propria pelle, e con i propri occhi, il fallimento dei progetti europeisti – hanno continuato a dare il proprio voto, nell’urna, a partiti compromessi mani e piedi con (per non dire succubi di) Bruxelles. Pur di non intraprendere una strada nuova e diversa, pur di non prendere la via d’uscita: il famoso exit, o almeno una scorciatoia che anche solo vagamente gli assomigliasse.

Badate bene, l’argomento ad metum è subdolo soprattutto perché si riferisce a un fenomeno storico (la fuoriuscita dall’euro, intesa come moneta unica) mai verificatosi. Quindi, le “pestilenze bibliche”, i “cataclismi millenari” evocati dai manipolatori di professione a danno di chiunque osi mettere in discussione l’Unione europea a ventisette, o il vincolo monetario per diciannove, si reggono sul nulla. Nessun Paese è mai uscito dall’euro: perciò, non abbiamo la controprova rispetto ai cupi anatemi di chi minaccia piogge di sangue e tornadi di cavallette su chi proverà a cimentarsi.

Al contrario, come messo ben in rilievo da vari autori, l’uscita da un sodalizio monetario si è verificata innumerevoli volte nel corso della storia senza che si siano mai realizzati i drammi vaticinati dai feticisti dell’euro. Pensiamo al Bangladesh, all’impero austroungarico, alla Cecoslovacchia. Da una unione monetaria si può uscire, ovviamente. Parola di premio Nobel. Così ha avuto occasione di esprimersi, in proposito, Joseph Stiglitz:

«Io non credo che sia cosi male tornare alle vostre vecchie monete. Le unioni monetarie spesso durano soltanto un breve periodo di tempo. Ci proviamo e, o funziona o non funziona. Il regime di Bretton Woods è durato trent’anni. L’Irlanda ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito e ha creato la propria moneta. Quando succede è un grande evento, ma succede. Ed è possibile. L’idea che sarebbe la fine del mondo è sbagliata. Sarebbe un periodo molto difficile, ma la fine dell’euro non sarebbe la fine del mondo».

Tuttavia, l’ovvietà e la logica sono due risorse di cui la pubblicistica pro-euro fa volentieri a meno se è possibile. E certamente è possibile se si può utilizzare al suo posto, e a proprio beneficio e tornaconto, un favoloso tranello linguistico come la fallacia ad metum.
Se ci riflettete, essa è stata usata soprattutto in tre occasioni negli ultimi anni, non tutte connesse con le vicende europee, peraltro: nel caso della Grexit, nel caso della Brexit e in prossimità delle elezioni americane all’esito delle quali Trump sconfisse la Clinton. Andate a ripescare alcuni titoli dei giornali di casa nostra e alcuni divertentissimi editoriali dei nostri intellettuali di punta. Avrete così l’opportunità di farvi un’idea perfetta di come usare il sofisma in questione; vi accorgerete di quali e di quante “piaghe d’Egitto” erano state invocate sui popoli interessati se avessero osato disubbidire alle volontà dei Mercati internazionali e dei media generalisti. E tali volontà

prevedevano, nell’ordine:
1) che la Grecia continuasse a farsi massacrare dalla Troika

accettandone tutte le frustate in arrivo (circostanza poi, purtroppo, realizzatasi a dispetto dell’esito del referendum);
2) che gli inglesi restassero nell’Unione europea;
3) che gli americani si regalassero un bel mandato clintoniano dopo gli “entusiasmanti” otto anni di Obama.

C’è un elemento ulteriore, ma non meno importante, della fallacia ad metum. E riguarda l’accusa paradossale che muovono contro i populisti i cultori dell’austerity, delle regole, dei parametri e del Sogno europeo. Secondo costoro, una delle più gravi colpe del populismo è che esso “fomenta la paura”, “si nutre della paura”, “semina la paura”.

Al populista viene imputato l’uso strumentale della paura per attirare consenso e macinare voti. Riandate con la memoria a quanto spesso ambienti soprattutto vicini alla sinistra “democratica” o alla stampa cattolica “progressista” si sono avvalsi di questo stucchevole stereotipo per dare una spiegazione all’ascesa dei movimenti dell’area sovranista.

In un articolo pubblicato su Ilsole24ore.com il 10 marzo 2018, il professore di storia contemporanea dell’Università di Bologna, Riccardo Brizzi, così sintetizza il concetto parlando della Lega: «La Lega è un classico partito populista di destra, simile al Front National in Francia o ad AfD in Germania: sono i cosiddetti “imprenditori della paura”, quelli che fanno leva sui timori dell’elettorato dettati dalla globalizzazione e dall’immigrazione, e pescano nel bacino dei cosiddetti “perdenti culturali” della globalizzazione, le persone che sono spaventate dai fenomeni con cui ci dobbiamo confrontare oggi».

Il noto editorialista e opinionista del «Corriere della Sera» Sergio Romano, in un suo articolo sul populismo pubblicato sul sito dell’omonimo quotidiano attribuisce ai populisti la paura per la “grande minaccia” rappresentata dalla triplice rivoluzione costituita dai fenomeni della globalizzazione, dell’informatica e della bioetica.

In realtà, la paura del “nuovo” non è una prerogativa dei populisti, ma dell’uomo in quanto tale. La paura è il più umano dei sentimenti e accomuna chiunque, sia il populista che il non populista, sia il sovranista tutto d’un pezzo che l’europeista innamorato. Soprattutto di fronte all’imprevedibile e repentina comparsa, sulla scenda della storia, di fenomeni impronosticabili fino a pochi anni fa.

Semmai, si potrebbe addirittura notare come – nella faretra dell’armamentario retorico dei cosiddetti sovranisti – non sia affatto la paura la freccia più acuminata, ma semmai la speranza. Chi non vuole l’Unione europea quasi sempre fa riferimento al “futuro” e a dimensioni e valori eminentemente positivi come “libertà”, “democrazia”, “Costituzione”, “sovranità”. Ciò non significa, si badi bene, che i sovranisti siano esenti dal rischio di incappare nella fallacia ad metum. È interessante, però, notare come gli europeisti convinti siano molto più suscettibili di cadere vittime del fascino di tale fallacia e di farvi più spesso ricorso.

In effetti, i sostenitori del processo unionista, hanno ritorto contro i sovranisti un “peccato” – quello di essere degli untori di paura – di cui essi per primi si macchiano. In sintesi: la paura non è un’arma esclusiva dei populisti e dei sovranisti, ma è piuttosto l’arma (preferenziale) dei loro acerrimi, “razionali” e “illuminati” nemici.

Sono le élite, in effetti, ad aver cavalcato negli ultimi anni le paure della gente per giustificare la necessità di più controlli per molti, di meno libertà per ciascuno e, va da sé, di più Europa per tutti: un traguardo, quest’ultimo, che è una sintesi eccellente degli altri due. In questo senso, oltre al terror panico seminato attorno alla prospettiva dell’exit, non dobbiamo dimenticare l’altro grande, indispensabile, spauracchio agitato come uno spettro, negli ultimi tempi, dall’establishment: il terrorismo.

Un recente saggio del grande giurista Gustavo Zagrebelsky si intitola: Come salvare la democrazia dalla paura. Riecheggia, nel titolo e nei contenuti, proprio ciò di cui stiamo parlando: la retorica della “paura”. Che è poi uno dei tormentoni più gettonati tra i custodi del pensiero unico.

Forse per amor di sintesi, il titolo dell’ultimo lavoro del grande costituzionalista ha in realtà dato immeritato lustro a uno dei più abusati cliché su piazza: quello, appunto, secondo cui le istanze populiste e sovraniste fomentino la paura.

Altro notevole contributo alla causa lo ha dato «La Stampa» che, in collaborazione con il «Financial Times», ha redatto un report in cui si legge:

«La paura è il miglior nemico dell’uomo, ma anche un compagno di viaggio frequente e un consigliere inaffidabile. Alimenta le decisioni meno ragionate e, in assenza di risposte adeguate, è la madre che aggiunge timore ai timori, provocando rabbia contro avversari spesso falsi come le notizie che li raccontano. È la paura che fomenta i populismi; è la sensazione diffusa di insicurezza e incertezza che governi e parlamenti faticano ad affrontare. È la molla della rivolta: i terremoti della politica, e della società, nascono nella paura che fa credere nel cambiamento da scatenare a ogni costo, esigenza che diffonde instabilità perché, nel mondo veloce e complesso, se non si guarda lontano, non si risolve alcuna incognita».

Come ben capite, ci troviamo di fronte a uno di quei refrain che, alla stregua di certi cappotti, vanno bene in ogni stagione. E non solo tra i perbenisti piccolo-borghesi, progressisti, democratici e allineati, ma anche e soprattutto tra l’intellighenzia di riferimento dei medesimi. La quale, benché espressione di una classa sociale e intellettuale in declino, tracima da tutti gli schermi e a tutte le ore sprizzando la sua insopportabile spocchia secchiona.

Ma, lo ribadiamo, il tema sul tappeto non è tanto la paura, quanto la sua trasformazione alchemica in un’arma di manipolazione e di contaminazione del discorso e, soprattutto, del discorso sensato e razionale.

Concludendo: ciò che tramuta un sentimento comunissimo (perché umanissimo) come la paura in benzina per la fallacia ad metum, è proprio il suo strumentale, e non logico. E non solo col subdolo intento di impedire un dibattito libero e onesto sull’Unione europea e sull’euro; anche e soprattutto per screditare un avversario che è molto meno impaurito di come lo si vuol dipingere.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com

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