Attualità
LA CRISI DI OGGI IN QUATTRO POSSIBILI PERCHE’ di Luigi Luccarini.
Se nessuno racconta bene la crisi, è evidente che dalla crisi non si uscirà mai.
Proviamo quindi a fornire qualche elemento perchè se ne possano interpretare le cause.
Capitolo Primo.
L’eccessiva dipendenza dell’economia italiana da quella della Germania.
Dall’1 gennaio 2018 ad oggi il Dax, l’indice principale della Borsa tedesca, ha perso il 22,58%.del suo valore.
Un quarto della sua capitalizzazione, insomma, è andato in fumo.
A meno di recuperi prodigiosi nelle ultime 2 ottave, si tratterà dalla maggior flessione fatta registrare dopo quella del 2008, l’anno della grande crisi mondiale, in cui le perdite furono del 45%.
Il tutto accompagnato da una svalutazione complessiva dell’euro su tutte le altre monete del 3,3%.
E senza che il Bund, in valori assoluti, abbia offerto un qualsiasi vero “paracadute” alle perdite, visto che la chiusura di ieri (163,21) fotografa quella di fine 2017 (163,20).
Il nostro Ftse, nello stesso arco di tempo, ha perso esattamente quanto l’indice tedesco: la differenza è nell’ordine di decimali di punto.
Non esiste nessun’altra economia in Europa così agganciata a quella tedesca, volendo considerare i raffronti CON gli altri principali indici europei.
Il Cac francese infatti si distanzia in positivo dal Dax di quasi il 10%.
L’Ibex spagnolo del 7%. La Borsa di Londra fa meglio del 9% circa.Persino Atene si difende: +5%.
Se dunque vogliamo una rappresentazione fedele dello stato della nostra economia, il grafico che vedete è lo specchio migliore possibile della sua attuale completa dipendenza da quella tedesca.
E in un certo senso può confermare anche cosa significhi lo “spread”, visto che misura proprio la distanza tra i rendimenti obbligazionari di Germania e Italia.
Vale a dire il nostro essere ormai prevalentemente paese “terzista” dell’economia tedesca, ed il prezzo che dobbiamo pagare per questo.
Un vero e proprio dazio che noi versiamo affinché la Germania ci consenta di restare attaccati alla sua locomotiva, e che tende ad aumentare ogni volta che si aprono stagioni di crisi.
Che possono dipendere da vari fattori, ma in ultima analisi hanno quasi sempre a che fare con dinamiche di contrazione della domanda interna di beni e servizi.
In Germania, ovviamente.
A quel punto il paese dominante deve in qualsiasi modo impedire che quello dipendente o vassallo in qualche modo “si emancipi”, creando i presupposti di un possibile intervento proprio, “pubblico”, nella sua economia.
E’ praticamente la negazione di ogni principio keynesiano, che qualsiasi studente universitario di primo anno, a pena di bocciatura all’esame di economia politica, impara essere stato il modo attraverso il quale il mondo intero è uscito da una crisi che poteva farlo arretrare fino all’età pre-industriale.
Ma alla nostra propaganda va bene così.
Capitolo Secondo.
Il ruolo di BCE.
BCE non spiega mai i fattori di crisi dell’Eurozona, anzi spesso nega proprio che vi sia vera crisi, perchè altrimenti dovrebbe spiegare troppe cose.
In primo luogo una politica monetaria che ha fatto sì che quasi 2.500 miliardi di liquidità aggiuntiva immessi sul mercato dal 2015 ad oggi, non abbiano fornito alcun risultato apprezzabile.
il Dax, sempre lui, si trova esattamente posizionato sugli stessi valori del 22 gennaio 2015, giorno in cui venne annunciato il formidabile programma di “alleggerimento quantitativo” che avrebbe dovuto generare ripresa e quel briciolo di inflazione istituzionale (2% annua).
Ma anche l’euro, che incredibilmente presenta lo stesso valore relativo (intorno quota 92) rispetto a quel giorno.
E pure i tassi di interesse, appaiono più o meno identici a quelli di allora.
Dove sono finiti quindi quei 2.500 miliardi?
Semplice: nel bilancio della stessa BCE i cui attivi di cassa sono aumentati più o meno dello stesso importo, superando il 4.200 miliardi a metà dello scorso anno e rendendo la Banca di Francoforte custode, ma al tempo stesso titolare di una cifra pari al 35% del PIL dell’Eurozona.
Ha un senso tutto questo? Probabilmente sì per i banchieri, che possono così decidere i destini della popolazione di un intero continente.
Ma non certo per le persone che lo abitano, a cui 2.500 miliardi spesi – e non semplicemente fatti circolare all’interno di un sistema interbancario – potevano regalare migliori condizioni di vita. E diverse prospettive per il futuro loro e dei loro figli.
Capitolo Terzo.
L’esproprio del risparmio degli italiani.
La crisi poi non ve la spiegheranno certo i gestori e consulenti finanziari, di Banche, Fondi e Sicav, che sono poi i più attivi nel dissacrare qualsiasi proposta autonoma provenga dalla politica italiana.
Per loro le cose vanno bene come stanno andando da anni e soprattutto il bene è che non si sappia in giro quanto ci raccontano ogni anno le statistiche circa la loro scarsa efficienza e l’aumento del divario tra il rendimento dello strumento finanziario in cui investono i nostri soldi e i risultati della loro gestione.
Perché ogni anno per noi da quel lato va sempre peggio.
Fate poi caso alla circostanza che nell’imminenza dei periodi di crisi, o al principio di essi aumenta di intensità la loro strategia di promozione delle attività di “raccolta del risparmio”.
Spesso anche con l’invito – a chi già sta perdendo soldi per loro colpa – a “mediare” sui prezzi, cioè a far confluire sul fondo altra liquidità, ad un livello di prezzo più basso nell’illusione che così prima o poi si tornerà “in pareggio”.
Magari dopo anni, in cui il risparmio è stato così bloccato, senza impieghi realmente remunerativi per il suo proprietario o anche solo utili per il ciclo economico generale.
Il grafico è impietoso e non ha bisogno di altri commenti.
Nel frattempo Fondi e SICAV, che per lo più sono società controllate da banche, vengono acquistati, insieme a quelle banche, da banche più grandi, in genere al di fuori del nostro paese, magari con operazioni di fusione che diluiscono quindi la provenienza di quel risparmio, così sottraendo al nostro paese l’unica vera risorsa di cui dispone in confronto alle altre nazioni europee e del mondo intero.
Capitolo Quarto.
Il comportamento della politica e degli intellettuali.
Ma la crisi neppure ve la racconteranno i politici di Bruxelles, quelli con cui ora il Governo italiano si confronta per i decimali di deficit, o di nuova spesa pubblica strutturale che vorrebbe introdurre nel suo bilancio.
Eliminando, ovviamente, altri: magari tutti quelli che fino ad ora hanno generato politiche sociali del tutto inefficaci o quelle che, in apparenza di sostegno all’occupazione, si sono invece risolte in una sorta di guadagno netto per le imprese. Che in questo modo hanno in parte compensato quel dazio dovuto alla Germania per restare nell’orbita della sua economia. A beneficio, però, più che altro delle loro tasche.
Non possono spiegarvela, i Commissari, perché sono non sono affatto figure centrali in un quadro che vede le decisioni che contano tutte assunte a Francoforte, dove hanno sede Borsa tedesca e BCE.
Tanto per capire chi comanda in Europa, sempre e per davvero, anche se a parlare sono un francese o un lussemburghese.
La crisi infine non vi verrà mai spiegata da chi riveste posizioni di privilegio nell’ambito della nostra società. Professori universitari, alti funzionari dell’amministrazione, centrale e locale, giornalisti e intellettuali, vertici sindacali ed in generale coloro che sono titolari di redditi da lavoro dipendente e garanzie normative di un certo livello, oppure chi nel campo del lavoro autonomo è riuscito ritagliarsi una posizione favorevole nel rapporto con tutti loro.
Si tratta peraltro di soggetti che grazie al loro grado culturale sono in grado di comprendere certi fenomeni e con un briciolo di onestà intellettuale potrebbero anche aumentare l’area della consapevolezza della popolazione.
Anche senza necessariamente dover aderire a questa o quella teoria sulle migliori soluzioni ai problemi.
Invece non fanno nulla, perché mantenere la maggior parte degli “altri” nell’ignoranza rappresenta il modo migliore per garantire a se stessi, a figli e nipoti, la posizione di potere, anche solo apparente, di cui si sentono titolari.
In realtà sono anch’essi servi, disposti però a vendersi “per un pugno di euro”.
E quindi torniamo al punto di partenza.
Perché se nessuno racconta bene la crisi, è evidente che dalla crisi non si uscirà mai.
E, quel che è peggio, si apre così la strada a dinamiche distruttive di qualsiasi coesione sociale, in un paese in cui la regola del divide et impera è stata sempre norma di comportamento delle classi dirigenti, soprattutto nei momenti di crisi.
E la base su cui poi costruire vere e proprie decisioni di stampo dittatoriale, anche nel quadro di un sistema in apparenza democratico.
Come quella con cui venne disposto a suo tempo il prelievo forzoso dai conti correnti degli italiani.
Come quella in cui, dalla notte al giorno, milioni di persone si sono trovati a dover fare i conti con un futuro che non c’era più.
Annunciato, per formidabile paradosso, da chi si faceva chiamare in quel frangente Ministro del “Welfare” e mentre in sala alcuni ridevano pure.
LUIGI LUCCARINI
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