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La Consulta dice “No” al taglio degli stipendi pubblici.

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La Corte Costituzionale con dispositivo letto in data odierna ha dichiarato illegittimo anche il blocco dei contratti pubblici varato per decreto nel 2010 per il triennio 2011-2013, nonché la proroga 2014. Il comunicato stampa recita: La Corte Costituzionale (omissis…) ha dichiarato con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza, l’illegittimità costituzionale sopravvenuta del regime del blocco della contrattazione collettiva per il lavoro pubblico, quale risultante dalle norme impugnate e da quelle che lo hanno prorogato”.

Il dispositivo, in attesa delle motivazioni (davvero interessanti vista la singolare scelta di un’incostituzionalità sopravvenuta), conferma la pronuncia di pochi giorni fa (la n. 70/2015) che aveva invece dichiarato integralmente illegittimo il similare blocco della rivalutazioni delle pensioni. La Corte in quel caso aveva ritenuto non sufficientemente esplicitate le esigenze finanziarie che avrebbero dovuto consentire il sacrificio di diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale quali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36 primo comma Cost.) e l’adeguatezza (Art. 38 Cost.). Tuttavia ciò che sorprende è che, dando un colpo al cerchio ed uno alla botte, la Corte ha limitato la retroattività della sentenza parlando di incostituzionalità sopravvenuta.

Sin d’ora però si possono fare alcune considerazioni sulla pronuncia odierna affermando che la tesi dell’Avvocatura a difesa del blocco, benché completamente errata, è stata certamente presentata ed argomentata meglio. Inoltre, in merito alla scelta della non retroattività, hanno avuto un ruolo, ad avviso di chi scrive, gli attacchi alla Corte Costituzionale da parte del Governo a seguito della precedente sentenza  che aveva evidenziato il problema che essa causava sui conti pubblici.

Nello specifico l’avvocatura, secondo gli organi d’informazione, ha affermato che “La misura scelta dal legislatore è stata adottata in luogo di altre e ben più gravi misure, quali la risoluzione del rapporto di lavoro (omissis…) i numeri dell’impatto economico che ci sono stati forniti dalla Ragioneria generale dello Stato segnalano l’assoluta gravità della situazione”. Ma soprattutto l’avvocatura, come da memoria depositata nei giorni scorsi, ha chiesto di fare “riferimento all’articolo 81 della Costituzione sul principio di equilibrio di bilancio” al fine di “valutare sotto il profilo della ragionevolezza le scelte legislative” e “chiarire anche i tempi di applicazione della pronuncia di incostituzionalità”. Questo è il passaggio più interessante poiché l’emergenza di cassa dello Stato viene desunta dall’obbligo normativo del pareggio in bilancio ancor prima che da dati oggettivi.

Per la prima volta il peso dell’art. 81 Cost. è entrato in un dibattito Costituzionale. Sempre in attesa delle motivazioni non si può non evidenziare come l’art. 81 Cost. sia in realtà in aperto contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento impedendo la stessa creazione del risparmio che come noto è matematicamente possibile solo con politiche di deficit, risparmio che rappresenta un valore primigenio della nostra Costituzione come espressamente indicato nell’art. 47 Cost. (La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme). Il risparmio è stato compresso dal blocco compiuto e avrebbe dovuto trovare pieno ristoro nella sentenza e non un riconoscimento solo per il futuro.

Inoltre il deficit è uno degli strumenti principali con cui lo Stato sostiene l’occupazione nel Paese in conformità con la fondazione della Repubblica sul lavoro (ex art. 1 Cost.). Ergo, in assenza di spinte inflattive, non ha alcun senso limitare la sovranità dello Stato e non consentirgli politiche espansive che peraltro una Nazione ben potrebbe finanziare anche con propria moneta e non con ricorso sistemico al mercato che rimane semplicemente una scelta politica e non obbligata sotto il piano fisico. Ergo il bilanciamento degli interessi costituzionali non doveva arrestarsi alla considerazione che il pareggio sia un limite fisico insuperabile ma doveva considerarlo una mera scelta politica di cui vagliare la corrispondenza (che non vi è) con i principi fondamentali dell’ordinamento. Speriamo che almeno la Corte non abbia abboccato alla panzana che il Paese all’epoca delle norme oggetto di contestazione fosse a rischio fallimento poiché il dato è falso. Ogni aspetto economico è drasticamente peggiorato rispetto ad allora (più disoccupazione, più debito, più povertà) e dunque l’Italia rischia più oggi di quanto ha rischiato in passato se continua ad attuare politiche di austerità.

Stando agli organi di informazioni Flp e Fialp (i sindacati del pubblico impiego intervenuti), al contrario dell’avvocatura, non hanno affatto affrontato la questione in termini corretti in merito agli equilibri della contabilità pubblica limitandosi ad affermare che l’intervento “è stato un intervento non proporzionale allo scopo” e citando i dati Istat avrebbe “dimostrano questa dinamica che tocca 10 milioni di italiani”. Tutti fatti veri ma non considerabili da Giudici che ritenessero ineluttabile il fallimento di una Nazione che spenda più di quanto tassi. Ergo era necessario spiegare ai giuristi della Corte Costituzionale i fondamenti delle politiche economiche e monetarie dello Stato.

Forse è così che si può spiegare la scelta odierna circa la curiosa formula dell’incostituzionalità sopravvenuta, sperando che la Corte, nelle motivazioni, non abbia davvero “glorificato” l’assurdità logica e giuridica del pareggio in bilancio creando un precedente pericolosissimo per il ritorno dell’Italia alla propria sovranità ed alla propria indipendenza.

Purtroppo se si va in Corte Costituzionale con tesi errate in merito alle dinamiche macroeconomiche si finisce per dare più danni che sollievo ai lavoratori italiani.


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