Crisi
J’ACCUSE 1, 2 e 3 (di Paolo Savona)
J’ACCUSE 1: i motori della crescita sono due: le costruzioni e le esportazioni (di Paolo Savona)
Da anni richiamo l’attenzione dei governanti italiani ed europei che i motori della crescita sono due: le costruzioni e le esportazioni.
Ho fornito alcuni dati a sostegno per l’Italia dai quali già emergeva che il peso delle costruzioni era il doppio di quello delle esportazioni.
Non disponendo di tecnostrutture che completassero con più precisione il quadro – perché mi sono state precluse dai Centri che avrebbero dovuto produrlo – ho beneficiato dell’opera preziosa di Antonio Rinaldi e dello staff del blog Scenarieconomici.it , che mi ha preparato un grafico comparato degli andamenti delle tre variabili considerate per Italia, Stati Uniti e Germania, da cui emerge un quadro visivo chiaro a conferma dell’interpretazione da me avanzata in più sedi, che così riassumo:
- la crescita delle esportazioni non basta per una ripresa del PIL senza il traino delle costruzioni;
- negli Stati Uniti il collegamento diretto tra edilizia e quantitative easing ha funzionato, contrariamente a ciò che ha deciso la ECB, escludendo esplicitamente dal TLTRO il finanziamento dell’edilizia e ora tacitamente dal suo QE;
- la Germania ha invece acceso i due motori immediatamente dopo lo scoppio della crisi finanziaria spingendo le costruzioni fino a temere una bolla speculativa e inducendo per questo motivo la BCE a non usare i suoi strumenti per finanziare questo settore.
In Italia sono stati fatti piccoli progressi nel settore, più dettati dalla demagogia della piccola assistenza al settore per fini elettorali che da un disegno di sviluppo coerente per l’intera economia.
Il più importante motore della crescita italiana gira tuttora a bassissimo regime, trascinando le sofferenze delle banche; a loro volta, queste sono state incapaci di contrastare la politica nichilista nel settore contribuendo alla crisi con restrizioni del credito, causando effetti involutivi per se stesse e per l’economia in generale.
Oltre all’ignoranza, che ha un suo buon peso tra i governanti improvvisati figli della crisi, quali sono i motivi per cui ancora non si affronta seriamente a livello delle persone istruite il problema della riaccensione del motore delle costruzioni?
Indicherei nell’ordine: un asservimento alle politiche europee orientate a un recupero di un modello di sviluppo di tipo export-led e preclusioni ideologiche verso il settore. Nella prima categoria ricadono la gran parte delle riforme richieste dall’Europa e sollecitate dalla Confindustria italiana per il rilancio della competitività, sottovalutando l’importanza della domanda interna legata alle costruzioni, anche per la capacità di traino di ben 18 dei suoi settori connessi con l’attività edilizia. Con questa politica, alla quale si è associata la BCE rilanciando il vecchio modello di sviluppo basato sulle svalutazioni dell’euro e permettendo una crescita dei valori azionari indipendente da quella dei profitti, l’economia italiana è caduta nel paradosso europeo di un eccesso di risparmio, testimoniato da un surplus della sua bilancia estera corrente, pur in presenza di una bassa crescita e di un’elevata disoccupazione. Il rilancio del modello export-led dei beni tradizionali prodotti dalle imprese esportatrici è incoerente con la reali condizioni geopolitico-economiche che non possono essere rimosse aggiustando sul benessere dei lavoratori e dei risparmiatori a causa dei dislivelli di costo del lavoro e di welfare con i paesi emergenti e quelli che emergeranno.
Il successo anche occupazionale del rilancio della domanda interna attuato dagli Stati Uniti dovrebbe pur insegnare qualcosa all’EU; esso si incrocia con la naturale vocazione dei paesi emergenti a tenere un surplus nella bilancia estera corrente per prudenza e per incapacità di usare l’intero risparmio da essi prodotto. Nel caso della Cina, vi è anche il desiderio di accumulare riserve ufficiali da investire nell’espansione della loro influenza geopolitica.
Più complesse sono le radici delle preclusioni al rilancio delle costruzioni che ho definito ideologiche, per contrapporle alle istanze pragmatiche che dovrebbero prevalere: la corruzione nel settore, che però nasce dalla collusione delle imprese con la burocrazia e proprio con chi deve gestire una diversa politica nel settore; le reazioni sociali agli elevati profitti degli immobiliaristi, che possono però essere trattati fiscalmente per rientrare negli schemi vigenti di giustizia sociale; le preoccupazione degli ambientalisti per gli effetti che hanno le costruzioni sulla ecosostenibilità del territorio, che però possono essere controllati affidando progetti e realizzazioni in mano capaci e serie. Non saranno certo norme sempre più severe a frenare le conseguenze negative delle tre categorie di preclusioni indicate, le quali sovente le accelerano e innalzano il prezzo della corruzione senza combatterla, ma scegliendo persone affidabili, che abbondano nel nostro Paese e vengono emarginate per proseguire secondo le vecchie linee politiche che gli elettori non sembrano capaci di combattere scegliendo meglio i propri delegati.
Per ora il mio atto di accusa finisce qui. Ci sarebbe molto altro da aggiungere. Non mancherà certo occasione, mentre mancherà quasi certamente attenzione.
J’ACCUSE N. 2: il problema dell’Italia non è tanto la crescita, quanto la spaccatura del Paese (di Paolo Savona)
Così come sostenuto nel mio J’accuse n.1 ( https://scenarieconomici.it/jaccuse-di-paolo-savona/ ) che il mancato riavvio del motore delle costruzioni non permetterà una crescita tale da riassorbire disoccupazione, anche per la crescita complessiva del nostro PIL vado indicando da tempo che la considerazione del dato aggregato maschera il vero problema da affrontare, quello del Mezzogiorno.
Continuando ad avvalermi del team di Scenari economici – che Antonio Rinaldi mi dice essere impegnato e agguerrito e che ringrazio per la collaborazione – presento un nuovo grafico per sostenere che il problema dell’Italia non è tanto la crescita, quanto la spaccatura del Paese: le prospettive di crescita del Centro-Nord paiono positive, mentre il Sud continua a regredire.
Rispetto all’inizio della crisi nel 2007, il Centro-Nord ha perso gli 8-9 punti percentuali di cui si parla e il Sud 12-13 punti. Una crisi che ufficialmente comincia come congiunturale, ma finisce con l’essere strutturale, quella che in effetti era già in atto, come testimoniano gli andamenti divaricanti emersi in precedenza. Come noto attribuisco questo andamento all’aver trascurato gli effetti del dualismo Nord-Sud nella decisione affrettata di firmare il Trattato di Maastricht e entrare da subito nell’euro.
Il mio ulteriore atto di accusa ai gruppi dirigenti del passato e attuali è l’aver ignorato gli effetti della doppia spaccatura testimoniata dai due grafici di Scenari economici che non ritengo possa essere superata da una crescita tout court dell’economia europea e italiana, già di per sé insufficiente per far diminuire la disoccupazione, nell’arco triennale che ci viene proposto.
Ho già insistito che, in queste condizioni, le medie usate non hanno significato perché la distribuzione delle frequenze non è normale e non rappresentano quindi le caratteristiche dell’universo. Siamo nel caso tipico noto come “il paradosso del pollo di Trilussa”, secondo cui se due persone hanno un pollo e uno solo lo mangia, le statistiche registrano che ciascuno ne ha mangiato metà. E’ il caso dello sviluppo europeo e di quello italiano.
Trascuro il fatto di chi ha mangiato e mangia il pollo europeo, né in questa sede tratto il perché il pollo italiano se lo mangia (in prospettiva) solo il Centro-Nord, un problema che tratteremo in altra occasione, una volta che ne venga riconosciuta l’esistenza.
E’ incomprensibile che non venga percepito che il problema della spaccatura del Paese è ben più grave di quello del ritardo nella crescita complessiva, che tanto preoccupa il Governo, senza considerare che questa è correlata con l’assenza di crescita nel Mezzogiorno.
Perciò la spaccatura territoriale è il problema politico principale che Roma e Bruxelles, oltre ovviamente Francoforte, devono affrontare. Accuso analisti e politici di rifiutare in modo persistente l’esistenza e la gravità di un siffatto problema e ritenere invece che, se il Nord cresce, anche il Sud lo seguirà. Balle.
Se aspettiamo che il Sud, attraverso le riforme richieste dall’Europa, riesca a lanciare un modello export-led, che peraltro in quell’area non ha mai funzionato, invece di rilanciare gli investimenti, partendo dalle grandi opere e dall’edilizia, e anche i consumi azionando le leve esogene dello sviluppo, ad esempio detassando, la situazione peggiorerà e, con essa e a causa di essa, la media italiana di crescita resterà bassa.
Se si ritiene che la crescita del Centro-Nord possa più che compensare la decrescita del Sud puntando solo a maggiori esportazioni, coltiviamo illusioni, tesi espressa nel J’accuse n.1.
Il male è molto più profondo, perché i divari di produttività Nord-Sud sono strutturali e, perciò, si spingono in profondità e non sono certo le politiche blande e fuori fuoco di quelle europee “di coesione” che possono sradicarli. Trascurarli, come va accadendo, non è un grande indicatore di civiltà, anzi è un’involuzione sulla strada intrapresa (male) dall’Italia fin dagli anni ‘50.
L’economia del Centro-Nord si trova oggi con prospettive di ripresa produttiva a livelli tedeschi perché si è “riformata” volontariamente, non certo per le politiche di austerità europee e per quelle così poco austere italiane.
Questa area ha espulso gli imprenditori inefficienti, ha scaricato sulle banche il peso dei loro errori, si è maggiormente impegnata nei mercati esteri, anche se ha anch’essa patito la crisi delle costruzioni. Se non avesse la palla al piede della pressione fiscale e dell’inefficienza della pubblica amministrazione correrebbe anche di più.
Del peso della corruzione è anch’essa responsabile, per non averla combattuta. Al Nord, in molti sono convinti che hanno anche una specifica palla al piede dovuta al Sud, nonostante le statistiche da me prodotte con Zeno Rotondi indichino il contrario, ossia che il loro sviluppo beneficia di quel mercato di sbocco.
Può anche darsi che costoro abbiano ragione nel dire che la colpa sia del Sud, ma non ce l’hanno se pensano che un paese civile abbandona parte dei suoi cittadini alle loro sorti, senza tenere conto che una nazione seria è legata dal vincolo della solidarietà. De Gasperi e Vanoni lo avevano capito: perché dicono il contrario quelli che si dichiarano loro eredi? Si rileggano il contratto sociale di Rousseau nella versione di Rawls (per citarne una), ma anche le idee di Croce e Calogero sul liberalismo e socialismo democratici, invece di correre dietro ai pifferai di Hamelin-Grimm.
J’accuse n. 3: L’aumento delle tasse serve per trascinare le spese (di Paolo Savona)
Dopo un trattamento durato un lustro, con il sempre prezioso aiuto del team di Scenari Economici, possiamo tirare le somme sull’uso fatto degli aumenti delle tasse dai tre governi che si sono susseguiti dal 2011 in poi (Monti, Letta e Renzi). Essi indistintamente hanno usato le maggiori tasse per aumentare la spesa pubblica corrente, per il cui sostegno sono state ridotte le spese in conto capitale e utilizzato il minor costodell’indebitamento (vedi grafico sottostante). Lo scopo per cui le tasse sono state imposte, ossia il rispetto degli impegni europei, è lungi dall’essere stato raggiunto. Monti è stato il peggiore in tutto, Letta haaumentato spesa primaria e Renzi ha ripreso i vecchi vizi, come dimostra il ritorno della spesa pubblica sulla linea di trend.
Accuso quindi i Governi che il sacrificio chiesto agli italiani è stato non solo inutile, ma controproducente, una vera e propria truffa. Questa non è certo una novità, perché da tempo la professione degli economisti aveva avvertito che le tasse servono per aumentare le spese. L’indifferenza, per certi versi la soddisfazione, dell’Unione Europea verso un aggiustamento dei deficit pubblici attraverso l’imposizione fiscale aggiunge gravi responsabilità agli errori dei Trattati e alle interpretazioni che sono state date dei contenuti.
Come se non bastasse l’Italia ha inventato un meccanismo paradossale eingiusto, voluto dai Governi con il consenso del Parlamento (che è peraltro sempre lo stesso): se le spese “sforano” i parametri europei del deficit di bilancio pubblico, scatta l’aumento dell’Iva. Abbiamo cioè approvato un meccanismo automatico della tassazione che rende facile il giochino dell’aumento delle spese e alimenta deflazione edisoccupazione. Il Governo si sbraccia nell’affermare che sta facendo di tutto per evitare un aumento dell’Iva, ma si guarda bene dall’impegnarsi per togliere l’automatismo; fa troppo comodo per finanziare i suoi scopi. Nel mentre ha annunciato l’esistenza di un tesoretto, dissoltosi (si spera) dopo la decisione della Consulta sull’illegittimità del mancatoadattamento delle pensioni all’inflazione, invece di varare un decreto legge che impone il ricalcolo del dovuto sulla base delle contribuzioni, tagliando le regalie diffuse a piene mani nel passato.
Annuncia ora che si dedicherà a tutelare i poveri, ammettendo che, pur appropriandosi di circa la metà del PIL, questi non sono protetti. Penso che l’idea sia il salario minimo di cittadinanza. Verrà presentato come una grande decisione di giustizia sociale, tra il plauso delle opposizioni estreme, chiassose e inconcludenti; servirà solo ad aumentare l’assistenzialismo e le connivenze tra burocrazia e Governo, coprendol’assenza di una politica economica che rilanci occupazione e crescita. Il collega Francesco Forte ha riferito nelle pagine odierne del Foglio che un’indagine svolta negli Stati Uniti ha confermato che la gente minuta, l’uomo e la donna della strada, chiede opportunità di lavoro e non assistenza. Una posizione molto civile e dignitosa. Quando gli italiani lo capiranno e rivolgeranno ai Governi e all’Europa la domanda sociale corretta?
Paolo Savona
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