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Conti pubblici

Incompatibilita’ tra Art.1 della Costituzione e Pareggio di Bilancio (di Giuseppe Palma)

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COME L’U.E. HA PALESEMENTE TRADITO IL DIRITTO AL LAVORO: L’INCOMPATIBILITA’ TRA L’ART. 1 DELLA COSTITUZIONE E IL VINCOLO DEL PAREGGIO DI BILANCIO 

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Propongo di fare, tutti insieme, un esperimento. Prendiamo la nostra Costituzione ed apriamola alla prima pagina. Ora – in silenzio – leggiamo l’art. 1, il primo comma:

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Fatto? Bene. Quale sentimento vi hanno provocato queste brevissime parole? Ognuno di noi conservi dentro di sé la risposta. Ora richiudiamo la Costituzione e facciamo un piccolo passo indietro, fino al 2012, quando in Italia governava il prof. Mario Monti.

 

Era il 2 marzo, e venticinque Stati membri dell’Unione Europea (ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca) sottoscrivevano il “Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria” (il cosiddetto Fiscal Compact), il quale, tra i vari limiti capestro in esso contenuti, prevede l’obbligo per ciascuno Stato di perseguire il pareggio di bilancio.

 

L’Italia, smaniosa di fare “i compiti a casa” e di apparire una nuora fedele al cospetto dell’intransigente suocera teutonica, è l’unico dei venticinque Paesi firmatari a spingersi oltre e ad inserire il vincolo del pareggio di bilancio addirittura in Costituzione, infatti un Parlamento sordo e schiavo – con la pistola del ricatto/imbroglio dello spread puntata alla tempia – vota a larghissima maggioranza (tant’è che non vi sarà bisogno neppure di un referendum confermativo) la revisione costituzionale dell’art. 81.

 

A mio modesto parere, come ho già dimostrato nella mia ultima pubblicazione (“Il Male Assoluto. Dallo Stato di Diritto alla modernità Restauratrice […]”), ritengo di poter affermare – senza alcun timore di smentita – che la costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio, oltre a rappresentare un vile attentato a quelle che sono le funzioni necessarie e indispensabili che uno Stato deve poter svolgere nell’interesse dei suoi cittadini, è del tutto contraria soprattutto al dettato costituzionale, e, nello specifico, al primo comma dell’art. 1, quello stesso articolo che abbiamo letto poco fa. Ve lo ricordate? “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. E’ la norma più importante della nostra Costituzione, il faro dell’intera legislazione, il limite supremo ad ogni sopruso, la rotta maestra che tutte le Istituzioni della Repubblica devono necessariamente percorrere! Se i Padri Costituenti decisero di fondare la Repubblica sul lavoro, vuol dire che ammettevano – sia implicitamente che esplicitamente – la possibilità di indebitamento al fine di creare piena occupazione (in pratica, i Padri Costituenti ammettevano – per Costituzione – che lo Stato potesse spendere a deficit). Se così non fosse, avrebbero potuto scrivere – ad esempio – che la Repubblica si fonda sulla democrazia rappresentativa, oppure sulla lotta ai totalitarismi, ovvero si sarebbero potuti spingere addirittura a fondarla (per assurdo) sul pareggio di bilancio o sulla stabilità monetaria, e non sul lavoro. Perché hanno scritto “sul lavoro”? Perché hanno messo il “lavoro” addirittura al primo comma del primo articolo? E’ ovvio che l’intenzione della Costituente era quella di creare uno Stato democratico che garantisse a tutti la possibilità di vivere liberi dal bisogno, garantendo a chiunque un medio benessere non scaturente dalla rendita o dalla proprietà, bensì dal lavoro (sia manuale che intellettuale)! Ma l’Assemblea Costituente, indomita, si spinse addirittura oltre e scrisse anche sia l’art. 4 co. I e II (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”), sia gli artt. 35 e seguenti (sulla tutela del lavoro).

 

Di fronte a tali principi, scalfiti con il fuoco e con il sangue in una Carta fondamentale dello Stato, ogni diversa interpretazione da quella predetta è del tutto contraria al dettato costituzionale e alle intenzioni della Costituente. L’aver sottoscritto il Fiscal Compact, averne autorizzato la ratifica e aver inserito in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio rappresenta, senza ombra di dubbio, un gravissimo attentato ai “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale, i quali rappresentano un limite implicito al processo di revisione costituzionale, sia che esso avvenga attraverso lo strumento tipico previsto dall’art. 138 Cost., sia che avvenga – seppur solo nella sostanza – tramite la sottoscrizione e la ratifica di Trattati che sono in aperto contrasto con il dettato costituzionale. Nello specifico: se l’art. 139 Cost. rappresenta un limite esplicito di revisione costituzionale (“La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”, dove per forma repubblicana si deve intendere il significato più ampio del concetto di Repubblica), esistono anche i c.d. limiti impliciti alla revisione medesima. Tra questi, oltre ai diritti inviolabili (ossia quelli di cui all’art. 2, ovvero quelli sanciti dagli artt. 13, 14 e 15) e al principio di unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5), troviamo soprattutto i “principi supremi”, cioè quei principi su cui si fonda l’ordinamento costituzionale, coincidenti – in parte – con i valori rubricati nei Principi Fondamentali (dall’art. 1 all’art. 12). Inoltre, tra i limiti impliciti di revisione costituzionale (quanto meno in senso peggiorativo) vanno altresì annoverate le disposizioni di cui alla Parte I della Costituzione (dall’art. 13 all’art. 54), ossia – come scrive Luciano Barra Caracciolo – “quell’intera enunciazione dei principi programmatici che rappresentano il campo della “specificazione” degli stessi diritti fondamentali”.

 

Considerato che le modifiche all’art. 81 Cost. sono state apportate dal Parlamento con legge costituzionale (attraverso la procedura dettata dall’art. 138 Cost.), è opportuno premettere che anche le leggi costituzionali sono poste – nella gerarchia delle Fonti del diritto – su un gradino al di sotto della Costituzione (e quindi a questa debbono essere conformi in ordine ai Principi Fondamentali, alla Parte I e alla forma repubblicana), pertanto è evidente che la nuova formulazione dell’art. 81 Cost., “modificando” nella sostanza sia l’art. 1 co. I che l’art. 4 co. I e II Cost., è da considerarsi del tutto non conforme ai predetti “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale. Dimostrata quindi la totale incompatibilità tra l’art. 81 Cost. e le disposizioni di cui agli artt. 1 co. I e 4 co. I e II Cost., è pacifico che esso debba essere sottoposto al giudizio della Corte Costituzionale per violazione dei principi inderogabili della Costituzione. Diversamente, qualora la Corte – per un qualsiasi motivo – non si pronunciasse sulla questione (ed io sono certo che non si pronuncerà, quanto meno non in questo periodo storico), sarebbe necessario che fosse proprio la politica – quindi in questo caso il Parlamento – a procedere alla sua immediata abrogazione attraverso la medesima procedura aggravata con cui l’ha introdotto (cioè quella dettata dall’art. 138 Cost.), e lo potrebbe fare in questo esatto momento storico in cui entrambe le Camere sono investite del tentativo di riformare la Parte Seconda della Costituzione. Tuttavia, perché si proceda all’abrogazione o alla modifica dell’art. 81 Cost., occorre una chiara e diffusa volontà politica in tal senso, al momento del tutto impercettibile.

 

Ricordate l’esperimento fatto all’inizio? Ora riprendiamo in mano la Costituzione e rileggiamo l’art. 1, sempre il primo comma: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Provate gli stessi sentimenti che avete provato all’inizio?

 

Giuseppe PALMA


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