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LO STATO IMMORALE

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Un celebre detto di Ernest Renan recita: “Conosco molti furfanti che non sono moralisti, ma non conosco moralisti che non siano furfanti”. Non è soltanto una battuta. Dal furfante ci aspettiamo che si comporti da furfante, dal moralista ci aspettiamo che sia il primo ad obbedire ai suoi propri precetti, perché quelle regole le ha stabilite lui stesso. E poiché a conti fatti “siamo tutti peccatori”, ad indagare approfonditamente il moralista risulta spesso un furfante.

Non bisogna confondere persona morale e moralista. Il galantuomo ogni tanto critica gli altri ma senza proporsi a modello e senza salire in cattedra. Il moralista invece si indigna continuamente per le malefatte altrui, le giudica imperdonabili e invoca sanzioni esemplari. A questo punto gli altri, per reazione e per legittima difesa, sono indotti a notare ancor di più i suoi limiti e le sue colpe, fino a giudicarlo un furfante.

In Italia il moralismo è una malattia endemica. Non è soltanto luogo comune e molesta demagogia, è addirittura dottrina fondante dello Stato. Tutti fanno finta d’aver dimenticato che la politica è essenzialmente estranea alla morale. Machiavelli non ha scoperto nulla. Contrariamente a quanto reputano i disinformati e gli stolti, egli non ha affatto predicato l’immoralità: ha semplicemente portato una realtà che è sempre stato evidente, sin dalla più remota antichità, al livello teorico. Al punto che la stessa Chiesa ha infine tolto il “Principe” dall’index librorum prohibitorum. E allora, come può uno Stato amorale porsi a maestro di morale? Con quale coraggio coloro che agiscono nel suo campo fanno i moralisti?

La spiegazione la dà lo stesso Machiavelli. A titolo personale i politici sono spesso dei galantuomini ma in quanto uomini pubblici sono necessariamente amorali: e questa amoralità comprende l’audacia di atteggiarsi a moralisti. Il parlamentare che si mostra diverso da com’è, che si indigna per i misfatti altrui, che propone di gettare in galera legioni di delinquenti e promette di emendare il Paese da tutte le sue brutture etiche, dimostra con ciò stesso la propria “professionalità”. Mente a tutto spiano, naturalmente. A cominciare dal fatto che quel compito è impossibile. Ma sa perfettamente che quell’inganno è nel suo interesse e nell’interesse del partito. E oltre tutto non per questo è più amorale dei colleghi, i quali usano gli stessi metodi.

La democrazia funziona così. Qualcuno che dicesse sempre e soltanto la verità agli elettori non diverrebbe neanche assessore di un villaggio. Vulgus vult decipi, ergo decipiatur, diceva qualcuno: il volgo vuol essere ingannato, dunque che lo sia. E dopo tutto, finché si tratta di parole e non di corruzione o di peculato, tutto si può perdonare. A tempo debito a questo genere di politici si può pure dedicare una strada o un monumento.

Più difficile è perdonare uno Stato che, per bocca dei suoi funzionari e per mano dei suoi magistrati, ci insegue da mane a sera e ci stanga se sgarriamo dal punto di vista economico, comportamentale, e perfino familiare. Le sue norme ci impongono mille doveri, si insinuano in tutte le pieghe della vita sociale, al unto che oggi non si ha più nemmeno il diritto di dare uno scappellotto al proprio figlio. E invece la Pubblica Amministrazione quelle stesse norme tende a dimenticarle, quando deve applicarle essa stessa.

Se si vuole aprire una scuola privata, i regolamenti impongono mille regole per l’edificio, le aule, i servizi. Ma nelle scuole statali quelle norme non sono affatto applicate. Personalmente mi son trovato ad insegnare in un corridoio, con gli alunni e i colleghi che uscivano dalle aule circostanti. E in un negozio, con un’ampia vetrina, dinanzi alla quale si fermavano a curiosare i passanti. Per non parlare delle norme antisismiche. L’unica garanzia è che la scuola, oltre ad essere malandata, è spesso talmente vecchia che, se fosse stata mal costruita, sarebbe crollata in occasione dei precedenti terremoti.

E c’è un esempio ancora più macroscopico. Lo Stato coltiva accuratamente la retorica nazionale e si accanisce contro gli evasori fiscali. Con eccellenti ragioni, naturalmente: chi evade lascia a carico degli altri il costo dei servizi di cui beneficia anche lui. Ma poi quello stesso Stato non paga i suoi fornitori o li paga con molti anni di ritardo, tanto che alcuni di loro falliscono per non avere incassato i loro crediti. Come può biasimare moralmente l’evasore? Costui dopo tutto cerca di tenersi il suo denaro, che magari ha guadagnato onestamente, mentre l’erario, forte della sua impunità, si tiene il denaro altrui e non lo versa al legittimo proprietario. A costo di mandarlo in malora. Che l’erario si attivi dunque per recuperare ciò che gli è dovuto: ha la Guardia di Finanza, per farlo. Ma non pretenda di averne anche l’autorità morale.

Gianni Pardo, pardo.ilcannocchiale.it

31 maggio 2014

 


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