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IL SENSO DEL TURPILOQUIO

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Il turpiloquio è una confessione di impotenza linguistica

 

Anche sulle ragioni del turpiloquio, come su ogni altro argomento, esisteranno ponderosi volumi. Eppure può darsi che tutto si riduca a un problema espressivo: chi continuamente si lascia andare ad esso probabilmente vuole raggiungere un’efficacia che non crede di potere ottenere altrimenti.

Le parolacce, nella speranza di chi le usa, dovrebbero ispirare nell’ascoltatore una sorta di ammirazione. Sono contro le regole della buona creanza e chi le pronuncia è come se dicesse: “Sono così sicuro di quello che dico, ci tengo tanto ad esprimerlo, che non mi curo delle convenzioni e neppure di irritarvi”. Proprio per questo, il massimo di (presunta) efficacia si ottiene con la bestemmia. “Se non rispetto Dio, se non ho nemmeno paura di lui, figuratevi in che considerazione tengo chi mi si oppone”.

In contesti meno drammatici le parolacce hanno la stessa funzione che ha il “do” in inglese nelle frase affermative: “I think so” significa “La penso così”, mentre “I do think so” va tradotto più o meno: “La penso assolutamente così”. E per ottenere questa sottolineatura l’incolto passa dal già brutale “Vattene, ti ho detto!”, all’inutilmente greve: “Vattene, e che cazzo!”

Inoltre il turpiloquio, essendo di solito riservato al linguaggio non ufficiale, ha per molti la connotazione della familiarità e della sincerità. È come se qualcuno dicesse: “Vi parlo come parlerei ad un amico. Perfino con le stesse parole che userei se non avessimo testimoni. Io non sto modificando il mio pensiero per farlo rientrare negli schemi ufficiali e sono totalmente spontaneo”. Ciò spiega perché Beppe Grillo non solo si serve di un linguaggio da trivio, ma addirittura ne abusa. Dopo averlo usato nei suoi spettacoli comici – sempre per presentarsi come la voce intima e critica degli stessi spettatori – usa oggi la lingua dei camionisti incazzati o dei disoccupati inferociti per contrapporsi alla “langue de bois” dei politici.

Stranamente, questi sforzi, che forse hanno effetto su qualcuno, non lo hanno sul linguista e sulle persone colte. Il turpiloquio dimostra povertà espressiva, scarsezza di immaginazione e il lessico sommario che corrisponde ad un’educazione insufficiente. Oppure, quando si tratta di persone che hanno certamente studiato – e potrebbe essere il caso di un personaggio come Vittorio Sgarbi – il fenomeno potrebbe essere dovuto ad un’insufficiente personalità; al tentativo di farsi forti di un’appartenenza: quella dei giovani, degli artisti scapigliati, degli irregolari col letto rifatto dalla mamma.

Il grande tecnico della lingua non usa parolacce perché non ne ha bisogno. Non ha bisogno nemmeno del punto esclamativo. La sottolineatura dell’esclamazione, se gli serve, l’ottiene non con un segno grafico, ma con l’uso di una parola diversa, speciale, e d’intenso sapore. Oppure con un concetto penetrante, un’immagine sfolgorante, una sciabolata intellettuale che lascia il segno. E perfino di fronte ad un attacco altrui è capace di trafiggere con un colpo di fioretto chi pensava di annientarlo con un colpo di scimitarra. In questo senso è esemplare un episodio attribuito al commediografo George Bernard Shaw, noto misogino. Una volta, stanca delle sue frecciate contro le donne, una signora gli disse asciutta: “Se lei fosse mio marito le metterei del veleno nel caffè”. E qui ci si può chiedere come avrebbe potuto rispondere il destinatario di una simile dichiarazione. Il primo livello, quello di Grillo, di Sgarbi, e purtroppo di tanti altri, è quello di chi avrebbe reagito in questo modo volgare e irritato: “Ma che cazzo dice, lo sa che lei è una bella stronza?” Oppure, limitandosi al livello serio e alto borghese: “Se lei ha istinti omicidi farebbe bene a non farlo sapere in giro”. Ma Shaw dimostrò il suo umorismo e il suo genio con questa risposta imparabile: “Se fossi suo marito lo berrei”.

Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it

17 febbraio 2014

 

 

 


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