Economia
IL SALARIO E LA MORALE
Il lavoro, nell’economia classica, è uno dei quattro fattori della produzione e deve essere retribuito. Tuttavia, mentre nessuno si occupa del livello di retribuzione del capitale di rischio (se non per deprecarlo, all’occasione), per quanto riguarda la retribuzione del lavoro per molti esiste una componente “morale”: giustificatissima ed ineliminabile. Del resto lo dice la stessa Costituzione italiana, all’art.36: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Questa norma va letta con estrema attenzione. Se, per vivere, un lavoratore e la sua famiglia hanno bisogno di cento, ma per quantità e qualità del lavoro la retribuzione “proporzionata” è di centoquaranta, il lavoratore deve avere centoquaranta. Se viceversa il lavoratore e la sua famiglia hanno bisogno di cento, ma per quantità e qualità del lavoro la retribuzione “proporzionata” è di ottanta, il lavoratore deve avere lo stesso cento, perché diversamente non potrebbe “assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Questa seconda parte della norma corrisponde a dire che il datore di lavoro (sempre che possa permetterselo) non deve corrispondere al lavoratore un salario commisurato soltanto a parametri economici, ma anche a parametri morali. Qualcuno inoltre dice che un eventuale esborso aggiuntivo è anche reso necessario da un’esigenza di ordine pubblico: infatti, se i lavoratori sono troppo sfruttati, un giorno potrebbero ribellarsi e darsi a violenze.
Il quantum della retribuzione del lavoro dipende dunque da tre elementi: il dato economico, cioè “la quantità e qualità” del lavoro; il dato morale; e infine il dato sociale. Sul primo non c’è nulla da dire: risulta naturalmente dalla legge della domanda e dell’offerta. Sul secondo è facile osservare che, se la contrattazione è libera, al datore di lavoro non importerà affatto sapere se, con quella paga, il suo dipendente ha ciò che gli serve per vivere dignitosamente o no. Se viceversa la contrattazione non è libera (per esempio per effetto di un salario minimo o di un contratto nazionale), il datore di lavoro assumerà il lavoratore soltanto quando il salario prestabilito sarà ancora compatibile con il bilancio dell’impresa. In altre parole saranno eliminati – o diverranno “in nero” – tutti i posti di lavoro economicamente corrispondenti a paghe inferiori al minimo di legge.
Interessante è il punto di vista della “rivoluzione economica”. Immaginiamo che in un Paese i datori di lavoro abbiano costituito un “cartello” così efficace da costringere i lavoratori ad accettare una retribuzione di cento, mentre un’equa retribuzione dovrebbe essere di centotrenta. E immaginiamo che tutti i lavoratori scendano in piazza con i forconi, fino a costringere i datori di lavoro a quel giusto allineamento economico. La conclusione sarebbe positiva. I lavoratori vivrebbero meglio, gli imprenditori non farebbero certo la fame e ci sarebbe una migliore giustizia sociale.
Ma ora facciamo un’ipotesi diversa. I lavoratori guadagnano cento e cento è la giusta retribuzione. Tuttavia, anche in base all’art.36 della Costituzione, essi sono convinti di meritare centotrenta. Dunque scendono in piazza con i forconi, provano a strappare quel nuovo salario ed ottengono di fatto la chiusura delle imprese. Perché se una retribuzione è antieconomica, non c’è possibilità di concederla. La conclusione dei due apologhi è che se la “rivoluzione economica” è ragionevole, tende ad un giustificato riallineamento della situazione lavorativa. Se invece è irragionevole, si traduce in una perdita economica per tutti. Purtroppo, nessuno può dire a priori se essa sia ragionevole o irragionevole: ma in fin dei conti lo dicono i fatti. Sicuro è che la violenza non potrà in nessun caso cambiare le leggi economiche le quali – diversamente da quelle dello Stato – non costituiscono un “dover essere” (Sollen, dicevano i giuristi tedeschi) ma un Sein (un “essere”). Né più né meno delle leggi di natura.
E questo chiude il cerchio. La retribuzione del lavoro può essere più o meno adeguata, economicamente, ma essa non può dipendere dalla morale o dalla volontà politica. Il suo incremento, e un conseguente miglioramento della condizione di vita dei prestatori d’opera, potrà dipendere dalla lotta sociale, e perfino dalla violenza, ma soltanto se corrisponde ad una situazione economica sbilanciata, rispetto alla quale quella lotta sociale costituisce un acceleratore. Ma nessun acceleratore può far avanzare l’automobile, se nel serbatoio non c’è benzina.
Piccola nota. Poco fa s’è detto che “se una retribuzione è antieconomica, non c’è possibilità di concederla”. In realtà in qualche caso in Italia qualcuno l’ha ottenuta: perché lo Stato ci ha messo la differenza. Ma quella differenza proveniva dalle tasche dei contribuenti: cioè alcuni lavoratori erano costretti a passare ad altri lavoratori, non necessariamente più meritevoli, una parte del loro salario. E il risultato di questo genere di politica l’abbiamo sotto gli occhi.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
10 gennaio 2014
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