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Il reddito di cittadinanza non è Von Hayek (ed il “serve più Europa” non è Berlino).

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Quando si parla di temi macroeconomici non bisognerebbe perdere di vista né la faccenda dell'”euro exit” né quella keynesiana della redistribuzione. Ahinoi spesso si corre il rischio di trascurare l’una o l’altra.

La teoria (che tanto teorica non è) delle aree valutarie ottimali ci insegna che i sistemi di cambi fissi non funzionano tra economie troppo diverse e, soprattutto, ad inflazione diversa, poiché provocano uno squilibrio nella bilancia commerciale a tutto svantaggio dell’economia più debole. Nel caso si compia questo “errore” quest’ultima importa disoccupazione perdendo l’export e per recuperare competitività o svaluta i lavoratori o finisce per trasferire risorse (imprenditori, lavoratori e minerali) verso i paesi più forti. La prima soluzione è criminale, la seconda pure ed i media la spacciano per “andare all’estero” quando trattasi di emigrazione e di colonizzazione.

Il progetto franco teutonico è sempre stato deindustrializzare l’Italia ed il sud Europa per poter poi avere una moltitudine di manodopera a basso costo che li sviluppi  rubandoci aziende e benessere. Una volta perso l’export il nostro paese non avrebbe più solidità (sarebbe colonizzato) ed i profitti prenderebbero la via oltre le Alpi.

I media propinano le virtù taumaturgiche di Mario Draghi ed il cosiddetto “serve più Europa”. In realtà “più Europa” (Cit. Francesco Boccia, poveri noi…) significa Europa Federale che tradotto significa “io paese ricco pago tasse per sviluppare tu arretrato”. Nessuno creda che ai tedeschi interessi esportare benessere nel sud Europa. Quest’ultimo userebbe questo fattore per defiscalizzare e rendersi di nuovo fastidiosamente competitivo.

Quindi penso sia pacifico comprendere che  il popolo italiano deve ribellarsi al fine di uscire dalla moneta unica.

Per quanto riguarda il secondo aspetto ovvero la redistribuzione ho sempre amato  confrontarmi con tutti gli attori della produzione e mi rendevo conto che gli imprenditori si inalberavano poiché una estrema rigidità, per quanto riguarda i licenziamenti, li portava a “sposarsi” con dipendenti anche in situazioni di crisi economica della azienda ed a mal sopportare eventuali dinamiche interne. Chi di noi non ha mai sentito qualcuno dire “appena le assumi a tempo fisso le ragazze ti vanno in maternità”. D’altro canto però una eccessiva precarizzazione del lavoro contraeva i consumi, l’accesso ai mutui era proibitivo per i dipendenti e non era etico.

L’unica soluzione che l’esperienza internazionale (e la letteratura specifica) ha individuato come solco tra precariato e flessibilità è la flexicurity. Il modello scandinavo ma anche centro europeo. Essa abbina una vasta flessibilità in uscita (e in entrata) ad un reddito minimo garantito (detto in Italia di “cittadinanza”, seppur il reddito vero di cittadinanza sia cosa diversa) oltre ad incentivi verso l’innovazione e la riprofessionalizzazione. Questo modello è un motore macroeconomico eccezionale poiché dà al cittadino la sicurezza di non esser mai lasciato solo e consuma anche quando lavora senza timori. In questo modo le attività aprono, diminuisce la fetta di disoccupati ed aumentano i contribuenti. Da qua a passare a un circolo virtuoso di defiscalizzazioni il passo è abbastanza breve. (Se c’è la volontà politica).

Le critiche rivolte a questo modello fanno leva più sulla mentalità “orticellare” italiana (di pancia) più che su una sana razionalità.

La prima è che non ci siano risorse  ma la realtà è che questi soldi sono stati trovati e bollinati dalla ragioneria dello stato. Inoltre viviamo in un paese dove negli ultimi 20 anni le tasse progressive hanno lasciato spazio a quelle penalizzanti i ceti bassi motivo per cui abbiamo un 10% di ricchi che si sono intascati ormai il 47% della ricchezza (in aumento). Trattasi di riequilibrare. Facendo pagare questo 10%, ci sarebbero i soldi per uscire dal medioevo e 10 milioni di persone consumerebbero in beni di prima necessità rimpolpando la classe media che vedrebbe aumentare gli introiti nelle proprie micro e piccole imprese (con benefici anche per le buste paga nel medio periodo). Sarebbe finalmente il matrimonio tra piccoli imprenditori, dipendenti e disoccupati privi ormai di ogni dignità. Questo matrimonio è temuto dal turbocapitalismo che da secoli propina al ceto medio il “siete come noi” per poi massacrarlo di tasse speculando ora con l’euro, ora con l’anarchia dei capitali, ora sui TdS (tutti fattori strettamente collegati).

L’altra critica votata all’assurdo è che il RMG favorisca il lavoro in nero quando invece è proprio chi non ha fonte di reddito a darsi al nero stesso. Io ad esempio pensate rischierei 6 anni di galera iniziando a lavorare illegalmente proprio nel momento in cui ricevessi un reddito e una prospettiva di lavoro? (Le 3 proposte). Oltretutto solo 500 mila italiani lavorano in nero sotto piccole imprese ed è evasione di sopravvivenza (un tot simile a quanto evaso dalle pmi). La vera evasione è inutile lo dica a un sito  informato come questo è quella delle big companies e della criminalità.  Per ogni lavoratore tolto al nero si genera peraltro un risparmio effettivo consistente per le casse dello stato.

La critica più radical chic però è quella che afferma che il RMG significhi “prenditi la paghetta e poi arrangiati” e cioè l’impedimento alla piena occupazione. Von Hayek pare sostenesse che al poveraccio andasse dato lo stretto necessario perché non si ribellasse ed affinché i “padroni” venissero lasciati dominare. Altri sostengono invece che il RMG significhi “Riforma Hartz” sul modello tedesco dove milioni di persone lavorano a 400 500 euro al mese. La prima teoria è sostenuta dal buonissimo Barnard, la seconda da Bagnai (i diretti interessati possono anche smentire). Sono due persone che stimo ma che mi permetto di contraddire. In realtà il reddito minimo workfare, cioè collegato alla accettazione di un lavoro vicino alle proprie competenze (e la riprofessionalizzazione stessa), indica che l’intenzione concreta ed attuabile è far lavorare la gente e non tenerla a prostituirsi in attesa della chimera della piena occupazione. Una sorta di piena occupazione mascherata (che di norma si intende disoccupazione sul 3, 4%). L’Italia è  uno dei  paesi più ricchi del mondo ed è un non sense questa situazione.

Per quanto riguarda la riforma Hartz  il tallone d’Achille di tale riforma non è certo la presenza del reddito minimo ma l’assenza del salario minimo orario che infatti la signora Merkel si appresta ad approvare. http://archivio.internazionale.it/news/unione-europea/2014/01/22/il-salario-minimo-in-europa .

E’ vero in Germania i disoccupati ottengno solo 345 euro al mese ma hanno anche garantita una abitazione, l’ affitto ed il riscaldamento pagati e per i licenziati  il 67% dell’ultimo salario per mesi  (12/18 a seconda dei casi) come indennità.  http://www.bin-italia.org/article.php?id=1727 .

Insomma vogliamo un paese forte?

Uscita dall’euro mettendo paletti all’anarchia dei capitali speculativi, reddito minimo, semplificazione delle pratiche per l’apertura delle attività sul modello inglese, abolizione delle tasse su chi produce (IRAP), flessibilità, informazione libera, lotta alla corruzione ed agli sprechi, giro di vite sul clientelismo dei rampolli e dei parassiti in settori improduttivi e investimenti in ricercatori, nell’ambiente e nel turismo, nella sicurezza delle persone, del territorio e dei beni culturali, innovazione e un sano piano industriale che preveda la ristrutturazione del preesistente e la coibentazione degli edifici.

Marco Orso Giannini

 

 

 

 


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