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Il protezionismo digitale: definizioni, pericoli, sfide per i responsabili di politica economica (di Marco Biagetti)

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Con il termine protezionismo digitale si intendono una serie ampia di barriere che colpiscono sia l’e-commerce che i flussi di dati che passano i confini nazionali. Queste barriere possono essere: censura, filtraggio, misure di localizzazione, tassazione e regolamentazioni interne (ma anche sovranazionali) pensate con l’obiettivo di proteggere i cittadini da mali come la disinformazione o la pornografia ma che finiscono per sortire effetti opposti. Il protezionismo digitale quindi:

  1. Controlla i cosiddetti “netizens” (cittadini attivi sul web) mediante le barriere sopra menzionate (censura, filtraggio e restrizioni dei contenuti);
  2. Protegge i netizens da mali mediante la protezione della privacy, la sicurezza, il rispetto della morale pubblica, il diritto ad essere dimenticati, la cyber-sicurezza, la limitazione dei contenuti delle informazioni disponibili su internet, la neutralità della rete; 
  3. Protegge le imprese locali mediante i requisiti di contenuto, le restrizioni sui diritti di proprietà intellettuale (IPR), gli algoritmi di divulgazione.

Il protezionismo digitale si differenzia dal tradizionale protezionismo perché il commercio internazionale dei dati è diverso da quello delle merci e degli altri servizi. I dati sono asset intangibili, facilmente commerciabili, e alcune tipologie divengono beni pubblici quando sono processati: in quanto beni pubblici i governi devono fornirli e regolamentarli efficacemente. In mancanza di un insieme definito di norme e definizioni, non sarà assolutamente facile definire un insieme di regole a livello internazionale efficaci nella riduzione del protezionismo digitale. Molte asserzioni e accuse di protezionismo digitale costituiscono vere e proprie preoccupazioni riguardanti i diversi approcci alla regolamentazione dei flussi di dati che sorreggono la rete all’interno dei confini nazionali. Anche se negli USA e in UE si è cercato di creare delle regole condivise, sia gli USA che l’UE si sono assai accalorati nel definire protezionisti gli approcci seguiti da altre nazioni. Almeno in ambito UE, di certo, il grado di concertazione e di diffusione delle informazioni riguardanti la redazione di norme e trattati (non ultimo il MES, benché non sia di diritto UE ma afferisca al campo del diritto internazionale) non costituiscono una bella pubblicità al presunto approccio “aperto” su dati e informazioni che l’UE aveva annunciato di perseguire nel passato.

Comunque sia, il protezionismo digitale, può determinare degli effetti collaterali inattesi, come la cosiddetta “instabilità della rete”, la “generatività” e un inefficace o menomato accesso alle informazioni. Per generatività si intende ciò che il professore di diritto digitale ad Harvard Jonathan Zittrain definisce come “la capacità di una piattaforma o di un ecosistema tecnologico a creare, generare o produrre nuovi prodotti, strutture o comportamenti, senza alcun apporto dell’originatore del sistema”. Questi effetti collaterali possono interrompere le comunicazioni, aumentare i costi e ridurre la sicurezza dei dati. Essi non sono effetti che si esauriscono all’interno di una nazione “dato-protezionista”. Quando uno o più governi censurano internet, la stabilità e l’apertura dell’intera piattaforma ne possono risentire negativamente. Inoltre il protezionismo digitale può anche minacciare i diritti umani e il progresso scientifico.

È quindi necessario che i politici riconoscano prima la mancanza di norme, definizioni e strategie ad hoc utili ad affrontare le barriere ai flussi internazionali di dati. In secondo luogo, gli stessi politici devono sviluppare un processo di governo dei dati giustificabile e onnicomprensivo a livello nazionale. In terzo luogo, essi devono collaborare per sviluppare regole e norme comuni. In breve, devono ripensare a come i dati debbano essere governati.

Più specificatamente a livello nazionale si deve:

  1. Creare un organo consultivo formato da diversi portatori d’interessi (stakeholder) per valutare i pro e i contro e gli effetti di breve e lungo termine delle diverse posizioni all’interno di eventuali negoziati. Tali organizzazioni dovrebbero includere i cittadini, l’accademia, le imprese, gli esperti di tecnologia, la società civile. I governi partecipanti devono mostrarsi aperti alle novità espresse da tali organi consultivi e sempre tenerle in dovuto conto
  2. Dare poteri ad un comitato sulla “governance” dei dati formato da rappresentanti del governo e dei parlamenti il cui lavoro deve essere quello di coordinare le politiche riguardanti i dati sia di livello nazionale che internazionale e assicurarne la coerenza e la responsabilizzazione
  3. Creare due canali di “crowdsourcing”-condivisione: una per gli esperti di commercio e l’altro per il pubblico in generale, dove i governi intenti nella stesura di accordi sul tema possano condividere idee e mostrare quando o come essi abbiano utilizzato quelle stesse idee.
  4. Incoraggiare le collaborazioni riguardanti il governo dei dati (ad esempio con iniziative di partenariato pubblico-privato in modo tale da minimizzare i rischi di fallimento di mercato o di Stato), collaborazioni che faciliteranno la condivisione dei dati stessi fra diversi settori della società.

A livello internazionale, i politici dovrebbero invece:

  1. Chiarificare le regole e le eccezioni ad esse in modo tale che le restrizioni al flusso di dati a livello internazionale non sia interrotto più spesso del necessario, impegnandosi nel contempo ad utilizzare tali dati per lottare contro diversi tipi di crimine (finanziari, commerciali, ecc.).
  2. Fornire con chiarezza un elenco di pratica da bandire perché distorsive del commercio internazionale.
  3. Delineare come le nazioni debbano o meno rispondere alle azioni che distorcono il flusso di dati a livello internazionale.

Alcuni passi in avanti sono stati fatti con l’utilizzo della catena a blocchi, ma i flussi informativi sono ancora molto opachi sia nel passaggio fra paesi (lo dimostra il sempre più alto volume di merci e servizi contraffatti e le violazioni dei diritti intellettuali di proprietà), sia nella diffusione verso il pubblico in generale. In definitiva, se da un lato vengono espressi buoni propositi, dall’altro (in nome di interessi nazionali o privati transazionali) si eseguono azioni esattamente contrarie.


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