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IL POST EURO(PA), PROPOSTA DI SCENARI ECONOMICI AL CONVEGNO DEL 1.4.17

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Relazione al Convegno del 1.5.17 IL POST EURO(PA) dello staff di Scenarieconomici.it
Fino a pochi anni fa sarebbe risultato difficile poter parlare di criticità nei confronti dell’Unione Europea ed euro senza essere additati come eretici. Chi come noi da tempo ha manifestato con ogni mezzo divulgativo e scientifico l’insostenibilità di tutta la costruzione dell’Unione Europea di Maastricht, dell’euro e della conseguenziale deriva antidemocratica crescente necessaria affinché le istituzioni europee possano continuare a sopravvivere, è stato sempre considerato appartenere a una sorta di setta di fanatici nostalgici sovranisti che guardano solo al passato e non al futuro.
Essere Sovranista significa invece ben altro, molto più semplicemente prodigarsi per poter riportare il cittadino al centro dell’interesse restituendogli il sacrosanto diritto di autodeterminarsi: la sovranità appartiene esclusivamente al popolo e nessuno può sottrargli questo fondamentale diritto! Il concetto di Sovranità non riguarda pertanto solamente il ripristino della propria moneta nazionale, così come in molti credono in buona fede o capziosamente, ma la possibilità di riappropriarsi della determinazione di decisioni che coinvolgono i cittadini così come previsto e garantito dal dettame costituzionale.
Quindi non solo ritornare ad avere una politica economica propria e non imposta dai vincoli esterni dei trattati, ma dalle reali esigenze dell’economia avvalendosi di una moneta come strumento che si plasmi all’economia reale e non di una come l’euro che invece con i suoi dogmi la condiziona, ma anche di poter rideterminare politiche energetiche, agro-alimentari, di investimenti, ricreazione di filiere produttive spezzate dagli assurdi dettami voluti dalla globalizzazione senza regole e la possibilità di rivendicare la sovranità della nostra plurimillenaria cultura e tradizioni. Essere sovranista quindi significa non guardare al passato, ma riprendersi il futuro per poterlo gestire direttamente senza intermediazioni e interferenze esterne per riconsegnare ai nostri figli una vita dignitosa di liberi cittadini.
D’altronde l’Europa c’è sempre stata e sempre ci sarà e l’esperienza dell’Unione Europea e dell’euro sono solo da considerarsi come parentesi negative e reversibili; sta a noi proporre un nuovo percorso sostenibile nell’interesse di tutti affinché venga garantita pace, progresso, solidarietà e crescita nel rispetto delle identità nazionali in quanto, se si riuscirà a preservarle, la sommatoria sarà superiore alla fusione forzata non voluta e non prevista rispetto a un modello che inevitabilmente le annullerà irreversibilmente favorendo pochi poteri dominanti a discapito di molti. A tal riguardo va ricordato, a chi sbandiera che grazie prima la CEE e poi alla UE abbiamo goduto di 70 anni di pace in un Continente così sempre martoriato, che il merito non è imputabile ai trattati ma alla NATO, almeno fin quando è stato essenzialmente gestito come un organismo a tutela per la difesa e non di offesa e all’area geopolitica di appartenenza dopo Yalta.
Ma per fortuna oggi il dibattito è aperto, sdoganato finalmente da quella opinione pubblica rimasta anestetizzata per troppo tempo da una informazione dei media a senso unico che non ha mai permesso che si potesse instaurare un serio e costruttivo dialogo fra tutte le forze del Paese. In altri invece, anche se con sfumature e intensità diverse, il dibattito sulla UE e sull’euro è sempre stato vivo al punto che i cittadini di una nazione come il Regno Unito hanno deciso di recedere dall’Unione e in molte altre si accingono a conquistare forti posizioni politiche che hanno come obiettivo quello dell’uscita sia dalla UE che dalla stessa moneta unica. L’unico timore è che alcuni partiti o movimenti politici nostrani possano “cavalcare” il crescente sentimento sovranista più attirati da fini elettorali, intercettando il dissenso dilagante, che per reale convinzione. Di fatto non esiste forza politica che non auspichi un cambiamento nell’attuale conduzione della UE e dell’euro, ma la maggioranza di essi proclama solamente generiche revisioni dei trattati e dei vincoli senza tuttavia mai specificare ricette concrete. Ebbene i trattati così come sono stati concepiti sin dall’origine e successivamente ancora più blindati, non sono modificabili. Sono stati architettati sulla base di un preciso modello economico che non prevede nessuna possibilità alternativa verso un’altro anche se pur leggermente diverso. La stabilità dei prezzi e il rigore dei conti fino al perseguimento del pareggio di bilancio sono un modello in antitesi a quello che prevede la piena occupazione, pertanto se si desidera riformare l’attuale UE e euro è necessario prima smantellarli completamente e poi proporne un altro con presupposti diversi.
La UE e l’euro sono in profonda crisi d’identità e di sostenibilità e se ne sono accorti per prime proprio le istituzioni europee che tuttavia si ostinano a non voler modificare nulla di tutto l’impianto fino ad ora costruito al punto da proporre “evoluzioni” come una Europa a due velocità, dove un nucleo euro-dotato cercherà ancora più intensamente di mettere in pratica l’utopia dell’integrazione economica, fiscale, politica e i restanti paesi (essenzialmente gli ex dell’est) lasciati a regole meno rigide, quel tanto comunque da poterli tenere sempre al guinzaglio. Praticamente la ricetta è il “più Europa” per chi ha già adottato l’euro, con spazi di flessibilità praticamente nulli e tutti gli altri con concessioni negoziate di volta in volta. Da tutto questo ne discende una ovvia e scontata considerazione: l’ammissione nella UE di paesi ex influenza sovietica è stata esclusivamente una scelta politica che ben poco aveva a che fare con Maastricht. Lasciamo a ciascuno di voi le considerazioni sulle motivazioni di tali scelte.
In tutto questo sorprende la proposta lanciata da uno dei padri di questa Europa, Valery Giscard d’Estaing, già presidente francese e uno dei personaggi più attivi nel processo che ha portato alla UE e all’euro. L’idea, apparsa proprio qualche giorno fa per mezzo di una lunga intervista al settimanale italiano L’Espresso, prefigura un nuovo “patto” fra i vecchi paesi fondatori (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo) più la Spagna, il Portogallo e l’Austria in sostituzione/evoluzione a quello generato da Maastrich i quali si dovrebbero da subito rendere disponibili a mettere in comune totalmente le politiche economiche, i deficit, i sistemi fiscali e i debiti. Naturalmente promotori e conduttori della governance di questa nuova versione dell’Europa sarebbero la solita Germania e Francia e tutti gli altri nello scomodo ruolo di prendere o lasciare. Crediamo fermamente che questa evoluzione dell’Unione Europea 2.0, per l’occasione chiamata dallo stesso Giscard d’Estaing “Europa”, pecchi proprio dello stesso errore fondamentale che sta portando l’attuale UE e l’euro alla deflagrazione: l’insostenibilità di legare paesi con economie strutturalmente molto diverse a una moneta comune, costringendole a perseguire le stesse identiche politiche economiche che non tengano conto minimamente dei dati dei rispettivi fondamentali macroeconomici. Anche questo tentativo, se realizzato, sarà destinato ad infliggere ancora più conseguenze negative a danno dei cittadini e a economie come la nostra. L’unica cosa che consola è nel constatare che il mezzo tecnico per la mutualizzazione del debito, cioè gli eurobond, sono stati espressamente bocciati come non realizzabili nel minuzioso accordo della Grosse Koalition (185 pagine!) stilato all’inizio dell’ultimo governo Merkel nato nel 2013, e a cui ha partecipato anche la Spd del quotato sfidante alla prossima Cancelleria Martin Schulz. Pertanto difficilmente i tedeschi accetteranno, comunque andrà a finire fra Merkel e Schulz, la condivisione dei debiti con altri paesi specialmente in un momento di crisi protratta dei debiti sovrani. La formula enunciata dall’ex presidente francese ha di fatto la pretesa di far rientrare dalla finestra il tentativo di costituire gli Stati Uniti d’Europa dopo che proprio la Germania e la Francia hanno sempre manifestato di non accettarla lasciandola ai sogni degli utopisti europeisti per partito preso propensi sempre in ogni caso a ben salvaguardare i propri interessi e quelli dei propri amici. Ci sentiamo di affermare con convinzione nei confronti della “fioritura” di proposte riguardo all’introduzione di doppia circolazione, ovvero di moneta parallela, da parte di molti esponenti politici, che non è il metodo per risolvere i problemi. Anzi creerebbe ancora più disagi poiché rimarrebbero intatti i vincoli di bilancio in euro, gli impegni sul debito e i relativi interessi come d’altronde il pagamento delle imposte. Semmai potrebbe l’idea trovare applicazione esclusivamente in realtà locali o di comunità ma non certo a livello nazionale.
Ma non è intenzione in questa occasione dimostrare scientificamente l’insostenibilità della costruzione dell’Unione Europea e dell’euro ne come tecnicamente il nostro Paese dovrebbe predisporre il ritorno alla valuta nazionale perché già lo abbiamo fatto in modo esaustivo nel precedente convegno del 3 ottobre 2015 “Un Piano B per l’Italia”, ma di proporre un modello sostenibile e condiviso di Europa per il “dopo” perché siamo fermamente convinti che la fine dell’Unione Europea e dell’euro, così come li conosciamo e subiamo, è solo questione di tempo e qualsiasi problematica connessa a nuove proposte di cambiamento sia risolvibile tecnicamente a condizione che ci sia una lungimirante volontà politica.
Desideriamo solo ricordare all’esercito di politici, classi dirigenti e economisti compiacenti che hanno deciso ciecamente e unilateralmente di far pagare ai cittadini e alla stragrande parte del sistema delle imprese italiane qualsiasi costo pur di rimanere nell’euro e nella gabbia Europea, che il tempo è ormai scaduto. Non hanno mai sentito l’esigenza di valutare preventivamente se questa sudditanza fosse realmente nell’interesse del Paese preferendo chinare la testa fino a sbucciarsi le ginocchia dietro a ogni articolo di Maastricht e a tutto quello che è venuto dopo, pur di far rimanere in piedi un sistema destinato a fallire senza mai alzare neanche un dito per verificare puntualmente gli effettivi costi/benefici di ciò che ci veniva imposto in nome dell’Europa. D’altronde siamo un Paese in cui chi ha scritto un libricino dal titolo “Euro Si, Morire per Maastricht” è diventato presidente del Consiglio… Ignorano, o meglio vogliono ignorare, che da molto tempo i costi dell’appartenenza a questo sistema sono di gran lunga superiori ai benefici senza mettere nel conto gli effetti antistorici della sospensione di qualsiasi principio previsto dalla democrazia che ha trasformato l’intero Continente europeo nella più subdola delle dittature: quella economica, con una Italia diventata una Colonia del Nord Europa assimilabile ad un out-let dove si viene a fare shopping di aziende a buon mercato. I Governi e i Parlamenti nazionali sono relegati nell’imbarazzante ruolo di passacarte certificatori di volontà decise fra Bruxelles, Francoforte e Berlino e non di rappresentare gli interessi dei rispettivi cittadini che li hanno eletti. In questo modo gli Stati sono considerati dalla governante europea delle vere e proprie società per azioni disponibili solo ad eseguire le volontà dell’azionista di maggioranza e non Stati di diritto dove il popolo è e deve rimanere sovrano.
La classe politica italiana di qualsiasi colore negli ultimi 30 anni ha attivamente acconsentito che si sottraessero ai cittadini quegli strumenti posti alla base del concetto stesso di democrazia, gli unici necessari per correggere le asimmetrie che giorno dopo giorno si consolidavano a vantaggio sempre più di istituzioni sovranazionali e per giunta non le legittimate dal suffragio universale.
A errori si sono sommati altri errori amplificando in modo esponenziale l’insostenibilità del modello posto a base e cardine dell’unione monetaria: la stabilità dei prezzi, cioè l’ossessivo contenimento dell’inflazione tanto da determinarne un target prefissato, e il rigore dei conti pubblici fino al perseguimento del pareggio di bilancio, come dogmi esclusivi per la crescita. Sappiamo purtroppo a nostre spese come questo modello abbia negativamente condizionato l’economia italiana e continentale permettendo di realizzare gli interessi di pochi a discapito di molti. L’euro si è dimostrato presto ciò che è sempre stato nella realtà: un accordo di cambi fissi che non ha mai tenuto conto dei dati macroeconomici di ciascuna economia, ma supportato solo da rigide norme scritte negli articoli dei trattati e ulteriormente blindati da regolamenti e direttive dove gli inevitabili aggiustamenti sono stati esclusivamente a carico della deflazione salariale con l’aggravante che, essendo ormai privi di un banca centrale a tutti gli effetti, la insostituibile funzione di prestatore di ultima istanza è a totale carico dei cittadini e del sistema delle imprese per mezzo della fiscalità e dei tagli nella spesa in particolar modo di quella a contenuto sociale.
Tutti argomenti arcinoti nella letteratura economica classica che tuttavia, coloro i quali ci hanno legato all’unione europea e monetaria e quelli che tutt’ora si ostinano a sostenerla, conoscevano perfettamente e non ne hanno mai volutamente tenuto conto.
La nostra proposta per il dopo Euro(pa)si basa su questi presupposti:
-Condivisione concordata con gli altri paesi europei perché il processo di smantellamento dell’Unione Europea e il ritorno alle valute nazionali non devono essere scelte unilaterali ma programmate e pianificate come auspicato dal Manifesto di Solidarietà Europea.
-Perseguimento dell’obiettivo della piena occupazione ristabilendo il corretto equilibrio fra democrazia, Stato e mercato così come previsto nella costituzione economica tracciata nella Costituzione stessa.
Il primo presupposto discende dalla consapevolezza che non è possibile, ne tantomeno auspicabile, una decisione di uscita unilaterale. Questo essenzialmente perché è quanto mai opportuna una separazione consensuale per continuare a dialogare costruttivamente fra tutti i partners europei che in ogni caso rimarrebbero comunque legati da forti vincoli economici. E’ inoltre molto probabile che, con la prospettiva di una uscita di qualche paese dall’euro, questo si dissolva automaticamente per cui è molto più proficuo darsi delle regole comuni e condivise nell’interesse generale.
Il secondo presupposto è che tutti i paesi (tranne la Germania e qualche suo satellite) necessitano di perseguire un modello economico diametralmente opposto a quello fino ad ora offerto a supporto dell’euro e sopra descritto che si rifà proprio all’ortodossia economica tedesca e che tenga conto della realtà dei rispettivi fondamentali macroeconomici. L’obiettivo primario deve essere quello della piena occupazione e non della stabilità dei prezzi che invece non la persegue! Quindi un recesso concordato dall’Unione Europea che superi quanto previsto dall’art.50 del Trattato di Lisbona che disciplini l’argomento e che ha dimostrato i suoi limiti applicativi con la Brexit. Inoltre uno scioglimento condiviso dell’Unione Europea favorirebbe successivi accordi bilaterali e multilaterali in ambito valutario e di scambi commerciali. A tal riguardo potrebbe essere rivisto e modificato il vecchio accordo EFTA del 1959 e successivi (Associazione Europea di Libero Scambio) cioè l’istituzione di un’area di libero scambio in cui gli aderenti s’impegnavano a azzerare le tariffe interne ma tuttavia rimanendo liberi di seguire una propria autonoma politica commerciale con paesi terzi in contrapposizione alle unioni doganali dove è previsto invece il medesimo comportamento anche verso l’esterno. A riguardo desideriamo sottolineare la vera e propria follia della Commissione Europea, in accordo con la precedente amministrazione statunitense, di adottare sanzioni economiche verso la Russia come ritorsione per la questione Ukraina-Crimea. Questa decisione ha nociuto all’intera economia continentale e con particolare riguardo a quella italiana, storicamente grandissimo partner commerciale della Russia, interrompendo in modo catastrofico consolidati e proficui scambi commerciali.
D’altronde il mercato unico necessario per la circolazione di una stessa moneta secondo l’assioma “One market, one money” non si è mai realizzato nell’ambito dei paesi aderenti all’euro e quel poco che si è visto in 25 anni di Maastricht è stata una farsa dove si è permesso che i due fattori di produzione, capitale e lavoro, creassero aree sempre più ricche e altre sempre più povere in assenza di politiche ridistributive. In quest’ottica quindi ciascun paese avrebbe la facoltà di riprendersi la piena sovranità monetaria avvalendosi di una propria Banca Centrale a tutti gli effetti e di stralciare tutte le direttive europee non d’interesse per il perseguimento dei propri obiettivi. Si specifica ritorno alla piena sovranità monetaria in quanto solo riconquistandola è possibile rientrare in possesso e gestire al meglio tutte le altre utilizzando gli strumenti di politica economica necessari per il perseguimento della piena occupazione.
Il ritorno alle valute nazionali, che per inciso non si rapporterebbero di nuovo ai valori pre-concambi irrevocabili fissati dall’Ecofin il 30 dicembre 1998 con decorrenza 1 gennaio 1999, ma ad un più pratico 1:1 con l’euro, darebbe a ciascuna la possibilità di potersi rapportare sui mercati valutari in modo realistico con tutte le altre secondo i propri fondamentali macroeconomici. D’altronde una delle classiche critiche dei sostenitori dell’euro è che con il ritorno, ad esempio alla lira, quest’ultima si svaluterebbe di almeno il 30% se non di più, ma inconsapevolmente e ingenuamente ammettendo però che in questo momento ci avvaliamo di una moneta per l’appunto sopravvalutata del 30% rispetto a quella che rifletterebbe la reale situazione economica del paese. C’è qualcuno che può sostenere ragionevolmente che un qualsiasi paese possa sopravvivere con una moneta sopravvalutata del 30%?
L’euro potrebbe rimanere come unità di conto, quindi una moneta virtuale non più materialmente disponibile nelle tasche dei cittadini, utilizzabile per alcune transazioni internazionali sulla falsariga dell’ECU (Unità di Conto Europea) antesignano dell’euro, il cui valore veniva costantemente determinato dal mercato sulla base di un paniere ponderato di valute europee. Paniere questa volta determinato da meccanismi che tengano conto costantemente del peso delle rispettive economie e dei flussi delle bilance dei pagamenti. Cioè se un paese accumula surplus automaticamente deve rivalutare la sua moneta, mentre chi registra deficit automaticamente deve svalutare. Si ricorda che per saldo della bilancia dei pagamenti s’intende la somma delle partite correnti di beni e servizi e del conto dei movimenti di capitale. Cosa che oggi nell’euro non avviene.
Accordi valutari fra nazioni post euro potrebbero contemplare bande di oscillazione per ciascuna valuta europea ma con la fondamentale regola che la loro determinazione può essere variabile e aggiornata in funzione dei fondamentali macroeconomici espressi da ciascun paese. La BCE, la cui denominazione rimarrebbe la stessa anche se avrebbe funzioni e compiti molto diversi, potrebbe collocarsi come istituzione che sovraintenda e controlli l’applicazione di accordi valutari fra le ritrovate monete nazionali.
Dal punto di vista tecnico le banconote euro essendo contraddistinte da lettere che ne identificano la stato di cui sono a carico (ad esempio S per Italia, X per la Germania, U per la Francia, V per la Spagna, P per i Paesi Bassi, ecc.) sarebbero all’ora X concambiate alla pari con le rispettive valute nazionali (ad esempio in Italia 100 euro con la lettera S con 100 nuove lire, in Germania 100 euro con la lettera X con 100 nuovi marchi, in Francia 100 euro con la lettera U con 100 nuovi franchi, ecc). Per le monete metalliche il problema non sussisterebbe in quanto già contengono i simboli nazionali come non ci sarebbero problemi per i depositi bancari e le attività/passività finanziarie in quanto possono essere tramutati tecnicamente immediatamente in altra denominazione. In questo modo tutti gli attivi e passivi contratti sotto la giurisdizione di un paese sarebbero ridenominati nella valuta nazionale secondo la Lex Monatae (in Italia art. 1277 e 1278 cc). Per le cosiddette Clausole di azione collettiva (CACs), cioè le clausole introdotte per i titoli di stato con scadenza superiore a un anno emessi dall’ 1.1.13 che consentono ai detentori di chi possiede almeno il 25% di ogni emissione di opporsi a ridenominazione, va precisato che anche questo accordo rientrerebbe in quelli di cui uno stato ha facoltà di recedere così come ogni altro trattato o regolamento europeo precedentemente sottoscritto.
Le clausole CAC furono introdotte a partire dal 2001 per permettere ristrutturazioni dei debiti sovrani ed inizialmente furono osteggiate in quanto si riteneva fossero troppo favorevoli al debitore. Si tratta comunque di clausole contrattuali che possono essere imposte perfino retroattivamente sul debito privato, come è avvenuto in Grecia nel 2012. Essendo espressione di una normativa di legge nazionale, come sottolineato da Moore e Wigglesworth e confermato perfino da due sostenitori dell’euro quali Galli e Codogno. I CAC non sono superiori alla legislazione nazionale e quindi possono essere facilmente superati dall’applicazione della Lex Monetae.
I sistemi bancari ormai svincolati dalla normativa europea, che ha sempre privilegiato gli istituti che hanno avuto attività finanziarie rispetto a quelle commerciali, ritornerebbero alla loro primaria funzione e gli stati potrebbero intervenire a loro supporto senza i dinieghi agli aiuti di stato per tutelare i risparmiatori (stralcio bail-in) e riparare i danni compiuti dall’Unione Bancaria.
Aggiungiamo quindi alcune considerazioni riguardanti il controverso tema dei saldi Target2. Per chi non fosse pratico della contabilità della banche centrali Target2 è la stanza di compensazione fra le varie banche centrali presso la BCE che ha visto, a partire dal 2011, saldi negativi sul lato della Banca d’Italia e della Banca di Spagna a confronto di enormi saldi positivi a favore della Bundesbank e delle banche dei Paesi Bassi e del Lussemburgo. Alcuni hanno interpretato questi saldi come una sorta di debito che dovrebbe essere saldato per poter, eventualmente, uscire dall’area euro. In realtà un’eventuale uscita della Banca d’Italia o di qualsiasi altra Banca Nazione dal sistema della BCE verrebbe si a portare alla necessità di regolazione di saldi, ma questi non sarebbero quelli Target2, ma, eventualmente, saldi netti fra attivi e passivi delle banche centrali che vanno ben oltre Target2. Se fino al 2011 i saldi negativi erano da imputarsi a movimenti di valuta fra i singoli sistemi economici dei paesi dell’unione monetaria, successivamente, con il quantitative easing, sono stati essenzialmente saldi di movimenti di massa monetaria che si sono mossi dalle singole banche nazionali verso la Bundesbank affinché questa potesse operare sul mercato finanziario di Francoforte in quanto questa, per conto della BCE, potesse effettuare gli acquisti di titoli sul mercato secondario. In realtà Target2 non è figlia di debiti di un sistema economico nei confronti di un altro, quanto, al contrario del pagamento di questi debiti stessi, o della formazioni di attivi finanziari nel paese con saldo di Target2 positivo, i cui detentori risiedono in altri paesi dell’eurozona. In realtà proprio tutto il sistema Target2 è il prodotto di una situazione di sfiducia profonda tra gli attori dell’area euro: infatti in qualsiasi sistema finanziario unitario mondiale, dalla Cina agli Stati Uniti alla Svizzera, nessun saldo parziale di area viene mai visto come un “Debito” o un “Credito”, ragionando al limite a livello di singole posizioni. Solo nell’area euro, vista la diffidenza di base sempre presente dalla sua nascita, si permette la creazione di questi saldi intermedi fuorvianti e spuri. Come giustamente faceva notare la Banca Centrale Olandese nel suo bollettino del 16 giugno 2016, i saldi Target2 sono ora il risultato del QE e della persistente frammentazione nell’euroarea cioè, aggiungiamo noi, sono il risultato del fallimento del sistema così come inteso inizialmente.

Ma il cardine fondamentale del ritorno alla Sovranità monetaria rimane la possibilità di poter perseguire il modello della piena occupazione non perseguibile nell’attuale configurazione euro. A tal riguardo si esprimono quali siano le motivazioni e quale sia il nuovo percorso a cui si dovrebbe guardare per il dopo Euro(pa):
A volte ci si chiede come dovrà essere l’Italia del post-euro. Immediatamente il pensiero va ai grandi filosofi che ci danno spesso la risposta ad una domanda che si pone ciclicamente.
La società platonica é stata definita da molti una società pre-comunista, poiché fondata sui principi dell’equa divisione dei beni, del potere della collettività, dell’accesso alla carriera in virtù del talento e non della provenienza d’origine e, soprattutto, per la carica egualitaria tra sessi ch’egli ha, con dissidenza per l’epoca, individuato: donne ed uomini sono eguali, e l’accesso alla carriera non é determinata dal sesso ma, appunto, dalla capacitá individuale. Il modello platonico, seppur per molti aspetti utopico, rimane uno tra i più perfetti tentativi di ordinamento equo e razionale della realtà“.
Secoli dopo arriva Rousseau il quale spiega che se desideriamo ottenere una società in cui regni l’ordine, dobbiamo ragionare in termini di IO COMUNE.
Sino ad arrivare al concetto metafisico di COESISTENZA: L’uomo e’ un essere sociale che vive di relazioni, viene al mondo, cresce, si forma e si prepara all’inserimento produttivo in una ben determinata società di cui fa suo il PROGETTO DI UMANITA’ che ne contraddistingue la cultura.
Il nostro concetto di comunità, di società, va ben oltre quindi il concetto classico di persona: IL SUSSISTENTE RAZIONALE!

Noi non possiamo né vogliamo che la nostra società sia governata da quei partiti che propugnano il supremo ideale delle merci, dei capitali e delle persone che viaggiano e che ambiscono quindi ad accompagnare la modernità nelle strutture sociali.
Essi falsano la natura dell’uomo, la sua naturale tendenza all’essere inserito in una cultura di cui assorbe il sistema valoriale, al solo scopo di servire colui che trama alle spalle del popolo: LA BANCOCRAZIA!
Per fortuna, 400 anni di pensiero modernista sta esplodendo, l’abitudine di mettere il proprio interesse personale/individuale al di sopra del benessere della comunità e della società sta pian piano venendo meno. Il programma modernista eurocentrico Hobbesian-Smithiano piano piano si distruggerà da solo causa costante lavoro del Logos!
Nostro compito sarà ricostruire società dove le élite siano messe dietro il popolo ed i suoi governi, e vengano opportunamente bloccate nel loro irrazionale tentativo di destabilizzazione dell’ordine naturale delle cose.
Per farlo, non è necessario scomodare i grandi pensatori della storia, è sufficiente considerare quanto uomini di stato pensavano di fare prima che i parassiti dell’Umanità li facessero fuori. Ad esempio prendiamo Paolo Baffi (governatore della Banca d’Italia dal 1975 al 1979 fra Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi) e il suo pensiero:
• Il primo obiettivo era il risanamento delle partite correnti della bilancia dei pagamenti;
• Altro importante obiettivo era la salvaguardia della produzione interna;
• E per finire, evitare i costi in termini di produzione e distribuzione del reddito tipici delle manovre di politica monetaria restrittiva nelle economie rigide quali quella italiana.

E la stabilità dei prezzi? Questa poteva tranquillamente esser messa in secondo piano!
Ma allora, cosa fare? Uno studio di tre economisti (due tedeschi e uno irlandese), illustrava nel 2008 le mirabolanti avventure dell’euro poiché aveva contribuito a creare un perfetto mercato classico dei capitali, dove le partite correnti dei PIIGS (negative), venivano compensate dai flussi finanziari opposti in cerca di rendimenti percentuali maggiori.
Purtroppo, a fronte della crescita delle “NET EXTERNAL LIABILITIES” (indebitamento estero) non vi e’ stato alcun ammodernamento/sviluppo industriale nei Piigs ma una vera e propria occupazione militar-commerciale!
Eppure, secondo i signori AHERNE di Galway, SCHMITZ e VAN HAGEN di Bonn, ossia secondo il loro: “Current Account Imbalances in Euro Area”, sperimentare deficit verso Germania e Olanda per lunghi anni compensando le partite correnti con il mercato dei capitali era sinonimo di perfetto funzionamento sia dell’EMU che dell’Euro in quanto creatore di un perfetto mercato dei capitali.
In realtà, la società che la UE ha creato altro non è che il confezionamento di un vecchio progetto delle corporation USA “to promotion of multinationall enterprises” recita un vecchio documento del 1972.
Progetto di promozione delle multinazionali che, come troviamo anche nello studio “Currency Union and Direct Investiment Inflow” di Adam e Anokye, dell’Università del Pireo si legge:
“….Inoltre, l’unione monetaria ECOWAS ha ampliato la dotazione di mercato e di risorse come conseguenza di un’unione monetaria e facilitato lo sfruttamento delle economie di scala da multinazionale.”
Ossia, una moneta comune crea le condizioni per l’attrazione degli investimenti diretti esteri poiché si determinano le condizioni per un concreto sviluppo delle multinazionali. Si sa che chi ha immensi capitali a disposizione tende a creare mercati in cui vi siano ALTE BARRIERE D’INGRESSO E ALTE BARRIERE D’USCITA grazie a cospicui investimenti, ma necessitano parallelamente di un grande mercato.
Peccato però che gli investimenti NON SIANO VENUTI NEI PIIGS, assieme ai capitali finanziari, ma siano rimasti in Germania. Chiaro che le economie di scala dei tedeschi hanno fatto si che la loro merce costasse sempre meno e hanno quindi buttato fuori mercato molti competitor dei PIIGS. Di tal guisa, l’incremento di vendite in Germania e’ avvenuto per sostituzione delle nostre ditte morte. Il flusso di capitali non ha alimentato investimenti nei nell’Europa del sud ma solo i consumi. Si è così retta l’occupazione in Germania (nonostante investimenti tecnologici di per se sostitutivi della manodopera) grazie alla crescita di debito privato (prestiti bancari) degli abitanti di Piigslandia che hanno acquistato (a debito) prodotti tedeschi sempre più convenienti.
Il problema, è che poi non hanno rimborsato le banche gettando l’intero sistema Euro in totale crisi!
Di tal guisa, nostro obiettivo principe dovrà essere il recuperare gli investimenti perduti e l’occupazione perduta in un lasso di tempo persino breve.
E noi intendiamo rispondere a coloro che muovono critiche ai sovranisti circa il cosa fare dopo, proponendo un percorso di ripresa del paese che adesso andremo ad illustrare.
La perdita di occupazione da seconda crisi (quella indotta dall’Austerity), ha consentito a Olivier Blanchard (ex capo economista del FMI) di poter ragionevolmente affermare che la gente spende non tanto in relazione al reddito futuro (di lungo periodo), ossia non segue l’equivalenza ricardiana, ma è mossa dal reddito e dalle prospettive di breve termine.
Analogamente, la contrazione dei consumi di breve periodo, determina un peggioramento dei conti aziendali e, quindi un calo degli investimenti (la cui entità è legata alle prospettive reddituali di breve periodo).
Se questo è vero, allora non ha senso ragionare in termini di NAWRU, NAIRU e OUTPUT GAP (ossia di differenza fra output potenziale ed effettivo), ha senso invece parlare di:
INVESTMENT GAP!
Possiamo definire l’investment gap come l’ammontare d’investimenti necessari per incrementare l’occupazione e ridurre la disoccupazione.
Di quanto? Di tutto quel che vogliamo ridurre.
Essi, poi, per effetto del moltiplicatore, che in Italia oscilla dall’1.2 al 2 a seconda del settore in cui si investe, genererà un aumento dei consumi che spingeranno ancora di più l’occupazione.
Per quanto sopra, possiamo definire l’occupazione quale vero:
PRIMARY SOCIAL GOALS!
Vediamo allora le formule di riferimento:
ΔE = f ( ΔI + ΔX ) dove I = investimenti e X = export;

ΔC = f ( ΔY + ΔFW + ΔR + FS ) dove Y = pil, FW= ricchezza finanziaria, R=tasso d’interesse e FS= fiscal stance (G/Dt+It)

ΔI = f ( ΔC + ΔX + ΔProfits ) poi

CA = f ( U ) e

= f ( ΔC + Δ Oil price ).

La definizione di queste equazioni consente di poter strutturare una manovra finalizzata al pieno impiego, ossia individuare il livello d’investimenti e assunzioni (occupazione) che spinge la funzione di produzione al suo massimo potenziale.
Dall’analisi dei dati storici, l’Università del Sacro Cuore di Milano è riuscita a calcolare i seguenti parametri:
1) Un aumento del 10% degli investimenti consente un incremento dell’occupazione del 3%, ossia circa 660.000 posti lavoro.
Pertanto, per recuperare l’occupazione perduta tra il 2007 e il 2013 servirebbe almeno un 18% in più di investimenti (circa 1.200.000 posti di lavoro).
2) L’incremento degli investimenti potrebbe essere contenuto rispetto al 18% se in contemporanea si lavora su un aumento del 20% dell’export che consentirebbe di recuperare circa 550.000 posti di lavoro, ossia il 2,5%.

Per quanto sopra, un incremento del 10% degli investimenti e del 20% dell’export consentirebbe al paese di recuperare l’impiego al 2007.

Ora il problema è, da un lato capire quali investimenti servono, dall’altra come spingere l’export del 20% se siamo in eurozona e un po’ in tutto il mondo ancora la ripresa non galoppa come servirebbe.

Per quanto riguarda gli investimenti, il contributo degli investimenti pubblici ha un valore molto più basso rispetto a quelli privati!

Di tal guisa, lo shock necessario per l’economia, non sarà in Italia l’investimento pubblico tout-court, bensì quello privato.

Poiché però gli investimenti privati necessitano di adeguati profitti, sarà necessario farne di pubblici per far ripartire l’economia, magari a deficit, al fine di far recuperare lavoro, produttività e, quindi marginalità, al privato, indi svalutare la moneta sovrana per recuperare ancor più marginalità sull’estero e consentire ai profitti aziendali di breve di incentivare l’investimento privato.
L’investimento pubblico quindi dovrà fungere da volano poiché il ruolo maggiore lo svolgeranno gli investimenti privati la cui correlazione con l’impiego e la piena occupazione danno risultati migliori.
Le formule fondamentali sono:
log ( U ) = α0+ α1 * log ( PR. I. ) + α2 * log ( Pb. I. )
log ( E ) = α0+ α1 * log ( PR. I. ) + α2 * log ( Pb. I. )

ove in entrambi i casi, U = disoccupazione ) e ( E = occupazione ), hanno i seguenti parametri propendono per l’investimento privato:
• α1 = 0,235 (investimento privato)
• α2 = 0,026 (investimento pubblico)
per la Germania ordoliberista, cosa davvero interessante, vale esattamente il contrario:
• α1 = 0,06
• α2 = 0,395
com’è strana la vita a volte eh?

Quindi per noi sono fondamentali i valori che ricaveremo dell’export e meno importanti gli investimenti pubblici. Questi ultimi saranno invece fondamentali quale traino per far recuperare marginalità alle imprese, innalzare i consumi finalizzati a ricreare un mercato interno, stabilizzare il recupero di produttività (e quindi marginalità) del privato, per far ripartire i suoi investimenti che sono solamente funzione dei profitti di breve periodo.
Tutte queste azioni faranno quindi recuperare il reddito disponibile degli italiani.
Ovviamente, la saturazione dell’INVESTMENT GAP di cui sopra non potrà mai avvenire in un mercato unico la cui dimensione è a misura di sole multinazionali oligopolistiche.
Una politica economica responsabile, con una visione di lungo termine, non potrà poi esimersi dall’affrontare i problemi creati dall’evoluzione della tecnologia applicata ai processi produttivi. La decantata “Quarta rivoluzione industriale” pone un problema nuovo per lo sviluppo economico e sociale, in quanto per la prima volta un avanzamento tecnologico non viene ad aumentare le opportunità di lavoro ed a ridurre le disparità sociali, ma viene a distruggere posti di lavoro, incrementando la dicotomia sociale fra una larga maggioranza disoccupata o sottoimpiegata ed una minoranza ristretta di tecnici altamente qualificati o di capitalisti puri. Le differenze sociali ed economiche stanno giungendo a livelli impensabili in passato, perfino confrontando le situazioni dei servi della gleba e dei regnanti di medievale memoria. Il premio Nobel Robert J Shiller in un suo recente scritto ha posto in luce la necessità di superare uno schema reddituale per passare ad uno schema che tassi , in modo limitato e diffuso , l’investimento nel capitale, per provocare le minori distorsioni ed inefficienze economiche possibili, sia per rendere più graduale e socialmente accettabile l’introduzione delle nuove tecnologie. L’evoluzione economica e tecnologica porrà comunque una domanda esiziale all’uomo: come far evolvere concetti quali “Reddito”, “Ricchezza”, “Capitale”? Quale prospettiva dare che non conduca alla creazione di un mondo composto esclusivamente da un sottoproletariato inutile per il ciclo economico affiancato ad una élite superflua ed essenzialmente parassitaria. Questa sarà la domanda che ci porremo fra 30 anni e nostro compito dovrebbe essere preparare gli strumenti culturali per affrontare questa sfida immane.

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