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Il mainstream alla prova dei fatti: a cosa servono le “riforme strutturali” – Parte 4. Di Claudio Bernabe’

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Non c’è da sorprendersi visto che sono decenni che la quota salari diminuisce praticamente in tutto il mondo. In linea generale, se diminuisce la quota salari, aumenta la quota profitti. Sia chiaro, si tratta di valori globali e come al solito siamo di fronte alla problematica insita nel cosiddetto “pollo di Trilussa” (se qualcuno mangia un pollo e qualcun altro no, in media hanno mangiato mezzo pollo a testa). L’aumento della quota profitti non è stata omogenea: le grandi e grandissime corporation ne hanno beneficiato moltissimo, i piccoli e piccolissimi imprenditori molto, ma molto, ma molto meno.

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Si sa, i lavoratori e i piccoli imprenditori non hanno santi in paradiso.

Vediamo la situazione in Italia delle percentuali su PIL del reddito lordo di gestione detratte le imposte indirette sulla produzione e sulle importazioni, al netto dei contributi alla produzione. L’Italia è nota nel mondo per il suo tessuto industriale fatto da piccole e piccolissime aziende che spesso lavorano in sinergia tra loro formando i cosiddetti distretti industriali. Come si può vedere, la situazione per le imprese italiane è la seguente:

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Fonte: Istat.

Si vede chiaramente che la caduta vertiginosa del reddito da capitale è antecedente all’arrivo della crisi del 2007-2008 che, è bene sottolinearlo, risulta essere la più grave in termini di durata degli ultimi 150 anni (guerre comprese!).

Ma visto che la quota salari stava già diminuendo da tempo in quasi tutto il mondo, perché in questi ultimi decenni c’è stata questa improvvisa recrudescenza? Perché questa spasmodica necessità, soprattutto in ambito europeo, di ridurre il costo del lavoro?

Ce l’ha detto chiaramente l’on. Fassina: «se non svaluti la moneta, svaluti il salario». La risposta pertanto è contenuta in quattro lettere: EURO!!!

Non potendo ricorrere al mercato dei cambi quale mezzo, quantomeno temporaneo, di compensazione delle differenze di competitività tra le nazioni, il regime di cambi fissi ci obbliga ad intervenire perseguendo la svalutazione dei salari. Questo ha un duplice effetto: la distruzione della domanda interna attraverso la riduzione dei salari (e l’aumento delle tasse), oltre a costituire una via imprescindibile per migliorare la competitività di prezzo delle nostre merci, è indispensabile anche per mantenere la bilancia dei pagamenti in attivo. L’austerità infatti, producendo un generale impoverimento della popolazione, ne riduce gli acquisti, anche di prodotti esteri, migliorando la bilancia commerciale. Se perseguita attraverso la riduzione dei salari, l’austerità consente anche la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) e quindi favorisce l’unico miglioramento di competitività con effetti già nel breve periodo realmente praticabile in eurozona.

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Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Eurostat.

Nel grafico soprastante si evince chiaramente che il differenziale di CLUP tra Germania e Italia a partire dalla nascita dell’euro è dell’ordine del 26%, ciò vuole dire che, a parità di altre condizioni, affinché l’Italia diventi la “locomotiva d’Europa” al pari della Germania, occorre che i salari subiscano una profondissima riduzione. A pensarci bene, il termine “locomotiva d’Europa” è quanto di più inappropriato si possa immaginare. In senso economico, la locomotiva è quella nazione che, grazie ad un adeguato aumento del PIL e della ricchezza pro-capite, aumenta i consumi (interni ed esteri) producendo un effetto traino per le altre economie. Qui ci troviamo nella situazione diametralmente opposta. Sono i cosiddetti PIIGS che, grazie alle importazioni incoraggiate da una moneta per loro troppo forte, sostengono la Germania consentendole dei surplus abnormi, stimati dalla Commissione Europea, per il solo 2015, in quasi 240 miliardi, pari all’8% del PIL tedesco.

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Ma da cosa deriva questa differenza di CLUP tra Italia e Germania?

Non certo dal salario che, in base alla ricerca effettuata dal Od&M Consulting e riportata ne “Il Sole 24 Ore” del 19/11/2014, risulta inferiore rispetto all’omologo tedesco. «Con 37.493 euro lordi il salario mediano dell’operaio tedesco è più elevato del 43% rispetto a quello del collega italiano (26.178) e il divario diventa del 67% nelle grandi aziende (49mila rispetto a 29mila) mentre nelle imprese medie la differenza è del 57,5% (45mila euro contro quasi 29mila) e nelle piccole troviamo in Italia una retribuzione mediana di 25.321 euro, in Germania di 35.491 (+40 per cento)».

Il salario medio tedesco si è comunque ridotto in questo ultimo decennio principalmente a seguito delle riforme del lavoro volute dall’ex cancelliere Gerhard Schröder e dal suo consigliere, l’ex top manager di Volkswagen, Peter Hartz che hanno creato un esercito di lavoratori sottopagati.

Come riportato nell’articolo di Tonino Bucci pubblicato su “Il fatto quotidiano”, «il mercato del lavoro in Germania è oggi diviso in due: da un lato, i settori dell’occupazione con maggiori tutele e retribuzioni minime garantite; dall’altro, fasce di lavori sottopagati». «Ma a far deflagrare il mercato del lavoro sono stati i cosiddetti minijob, contratti atipici a costo zero sul piano fiscale per gli imprenditori e con retribuzioni non superiori ai 480 euro mensili. Gli unici contributi previsti sono il minimo indispensabile da versare nelle casse della previdenza sociale, a carico dello Stato». Grazie all’introduzione di questo esercito di working poors, in Germania il costo del lavoro si è ridotto contribuendo a rendere le loro merci più competitive. Per ammissione dello stesso Hartz, il sistema fu reso possibile grazie a circa 2 milioni e mezzo in bustarelle, prostitute, Viagra e viaggi in Brasile elargiti ai dirigenti sindacali.

I differenziali di CLUP dipendono forse dal cuneo fiscale, cioè dal divario tra il costo del lavoro a carico delle imprese e la retribuzione netta percepita dal lavoratore?

La risposta è negativa, almeno a quanto si apprende dall’articolo di Cristina Tealdi e Davide Ticchi pubblicato sul sito www.lavoce.info.

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Fonte: OCSE

«Dal grafico si può osservare come negli ultimi dieci anni in Germania vi sia stata una riduzione del cuneo fiscale (di un lavoratore single monoreddito) di qualche punto percentuale, che potrebbe aver favorito la riduzione del costo del lavoro in questo paese. In Francia e in Italia, invece, è rimasto sostanzialmente stabile. Quindi è difficile imputare al cuneo fiscale un contributo significativo all’incremento del costo del lavoro. È inoltre interessante notare come il suo livello in Italia sia inferiore a quello degli altri due paesi».


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